Un po’ di tempo fa, nel tentativo di diventare ancora più insopportabile, mi sono finalmente liberato del mio smartphone. Tra i miei amici ho già fatto proselitismo a sufficienza sui vantaggi di questa scelta – maggiore capacità di concentrazione, migliore qualità del sonno, crescita dei capelli curiosamente folta – perciò qui non intendo dilungarmi. Una cosa ho notato, però, non così scontata, cioè quanto la mia vita sia ora molto meno dominata dal linguaggio.

Ultimamente si è fatto un gran parlare dei presunti effetti deleteri della tecnologia moderna sull’alfabetizzazione, da un Substack virale di James Marriott a un saggio sull’ultimo numero della rivista The Baffler. Ma le ultime settimane mi hanno spinto a chiedermi se, paradossalmente, non dovremmo preoccuparci piuttosto del contrario: i nostri smartphone che ci bombardano di troppe parole e quindi ci rendono, in un certo senso, iperalfabetizzati, senza una vera sensibilità per le sottigliezze dell’esperienza umana che non si possono esprimere in modo chiaro usando il codice.

Prima di buttare via l’iPhone, le mie giornate erano un’ininterrotta bufera di parole: notizie, podcast, video di YouTube, Twitter, WhatsApp, email, Wikipedia, libri, riviste. Certo, anche senza cellulare passo ancora buona parte del mio tempo a leggere, scrivere, ascoltare e pensare “linguisticamente”.

Ma quello che rendeva lo smartphone particolarmente pernicioso era che tappava ogni singolo buco della giornata in cui avrei potuto avere un breve momento di pausa dalle parole. Perfino quando camminavo tra le stanze del mio appartamento, d’istinto tiravo fuori il telefono e trovavo qualche testo da scorrere. In certi giorni, il massimo del tempo che passavo senza fare i conti con il linguaggio era qualche secondo sotto la doccia.

Ora le cose sono piuttosto diverse: posso allegramente affrontare un lungo viaggio in autobus o in treno senza dover trovare un testo a cui agganciare la mente. Questo mi ha insegnato un paio di cose. Primo, quanto il linguaggio rimodelli il nostro senso della realtà, staccandoci dal qui e ora; molto semplicemente, confondiamo la mappa con il paesaggio. Secondo, e per estensione, questa confusione distorce la nostra idea di intelligenza, quindi ci rende ciechi a quanto l’intelligenza umana sia diversa dagli approcci attuali dell’ia.

Il rompicapo dei filosofi

Non è una rivelazione il fatto che il linguaggio e la parola scritta in particolare ci astraggono dal mondo intorno a noi. Questo, per imbastardire il pensiero del filosofo Gottlob Frege, succede perché l’aspetto più fondamentale del linguaggio – quello che le parole significano davvero – non si situa realmente nel tempo o nello spazio. Un “significato” non ha una collocazione o una forma concreta. E non è neppure limitato a un momento o a un evento particolare: se scrivo una lettera, le parole non smettono di significare quello che significano mentre rimane non letta nel furgone postale tra una casa e l’altra. Il significato è del tutto separato dall’inchiostro con cui le parole sono scritte o dalla mente che le decifra.

Per i filosofi è sempre stato un rompicapo. Per tutti gli altri, ha concrete implicazioni psicologiche. Più tempo passiamo con le parole, meno siamo veramente “dentro” il mondo che ci circonda: le nostre menti operano, per così dire, su un piano diverso, navigando una rete invisibile, un po’ come in quei grafici che mostrano come le trasmissioni satellitari o i dati internet fluttuano fantasmagoricamente sopra la Terra. Possiamo pensare al linguaggio, in effetti, come al primissimo social network: un mondo parallelo in cui ci ritiriamo nella nostra testa, in teoria per connetterci con gli altri, ma che gradualmente ci fa perdere il contatto con il mondo che abbiamo davanti.

La nostra lingua, il nostro mondo
È vero che ogni lingua incarna una visione del mondo diversa, o addirittura che impone specifici schemi di pensiero a chi la parla?

Nell’era degli llm (large language model), i modelli linguistici di grandi dimensioni, sembra un doppio problema. Siamo diventati insensibili all’unicità dell’esperienza non linguistica nel momento esatto in cui le macchine stanno cominciando a imitare in modo convincente la nostra competenza con le parole. Con il progressivo miglioramento dell’ia, quello che ancora ci distingue davvero come esseri umani è il modo in cui sentiamo la fisicità del mondo intorno a noi e percepiamo lo strano, continuo, ininterrotto scorrere del tempo. Di fatto, ci sono buoni motivi per sospettare che la nostra intelligenza emerga da questi elementi mondani. Ma noi diventiamo sempre più ciechi a questo aspetto della nostra esistenza per l’incessante assalto di parole, parole, parole.

E così dimentichiamo qualcosa che dovrebbe essere del tutto ovvio: che la nostra capacità di comprendere le frasi prodotte dall’ia è una capacità non linguistica. Cioè, riconoscere qualcosa come vero, interessante o pertinente non è di per sé qualcosa che facciamo mescolando parole nell’ordine giusto, ma usando una facoltà precedente e più ampia che “osserva” il linguaggio, e lo giudica, dal di fuori. Sembra molto probabile che questa capacità derivi – e dipenda – dalla nostra esperienza più estesa e prelinguistica del mondo.

Naturalmente, ci sono teorici dell’ia convinti che presto riusciremo a “incarnare” menti artificiali in robot che potremo addestrare a “fare esperienza” del mondo reale come gli esseri umani. Per un verso hanno ragione. Ovviamente si può collegare un llm a una videocamera, poniamo, fargli analizzare i pixel che riceve, collegarli a una serie di istruzioni su quando muovere le ruote in avanti, e così via. Ma in nessun senso riuscirà ad avere una reale consapevolezza del mondo fisico: tutto quello che ha è un mucchio di dati digitali, che può interpretare per comportarsi in modi genericamente simili a quelli umani.

Un mondo accanto

In realtà, se gli llm potessero davvero pensare, sarebbe quasi impossibile convincerli della realtà del mondo materiale: tutto quello che non rientra nelle parole e nei numeri – come la nostra esperienza sensoriale degli oggetti – sarebbe letteralmente inimmaginabile. E come potremmo far “sentire” a un robot il passare del tempo, invece di limitarci a inserire una serie di marche temporali?

Forse non possiamo escludere categoricamente che un giorno il nostro senso continuo del tempo si riveli solo la conseguenza di scintille di dati binari nel cervello che creano l’illusione di un’ininterrotta esperienza progressiva (anche se mi sembra profondamente improbabile). Ma possiamo affermare con sicurezza che un’ia senza gli aspetti non semantici dell’intelligenza – da cui emerge la stessa riflessione linguistica degli esseri umani – quasi certamente non ci somiglierà affatto.

Parlare senza parole
Le interiezioni non sono suoni senza senso, ma svolgono un ruolo molto importante nelle conversazioni e potrebbero essere state fondamentali per lo sviluppo del linguaggio.

Ora, è vero che la reificazione del linguaggio da parte dell’umanità non è esattamente iniziata con gli smartphone. Già nel diciannovesimo secolo i filosofi ci avvertivano di non confondere parola e mondo. Nietzsche, per esempio, scriveva: “L’umanità ha posto nel linguaggio un mondo a sé accanto all’altro, una posizione che ritenne così saldamente fondata che, partendo da essa, poteva sollevare sui suoi cardini il resto del mondo e farsene padrona”.

Certo, una parte delle sue preoccupazioni nasceva da un’avversione antidemocratica per l’alfabetizzazione di massa e per l’ascesa della carta stampata: gli uomini, scriveva, “hanno perso l’ultimo residuo non solo di un modo filosofico ma anche di un modo religioso di pensare, e al loro posto non hanno acquisito neppure l’ottimismo, ma il giornalismo, lo spirito e l’assenza di spirito del nostro tempo e dei nostri quotidiani”. Ma sotto l’élitismo di Nietzsche c’era anche l’autentico timore che il linguaggio calpesti l’esperienza diretta, che faccia apparire i problemi filosofici troppo tangibili e facilmente risolvibili.

Quindi la storia risale verosimilmente alle primissime parole della nostra specie. Il linguaggio, dividendo l’esperienza in entità discrete, mette in moto il nostro processo di meccanizzazione del mondo, e ora sembra condurre alla trasformazione finale della mente in un computer.

Sospetto che la tentazione di scambiare il linguaggio per la realtà sia costante, e che la tecnologia moderna renda semplicemente più difficile resistere a questa tentazione. Ma offre anche una curiosa opportunità. Abbandonando il telefono, si ottiene qualcosa che per le generazioni precedenti sarebbe stato molto difficile da raggiungere: un ritorno improvviso, drammatico e dunque radicalmente vivido al sostrato dell’esperienza umana, prima lo coprissimo con la griglia del linguaggio. Volete sapere perché l’ia non vi sostituirà? Spegnete il telefono e andate a fare una passeggiata.

(Traduzione di Gigi Cavallo)

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