13 agosto 2017 10:09

Nel suo famoso saggio sull’autosufficienza, lo scrittore e naturalista dell’ottocento Ralph Waldo cantava le lodi dell’isolamento spirituale e sferzava i danni della distrazione, deplorando le forze che cospiravano per indirizzare la sua attenzione alle “inezie empatiche”. Non si sarebbe fatto intimidire, affermava, ma avrebbe resistito a simili influenze negative: “Ricambio gli uomini che hanno la capacità di irritarmi con una ben debole curiosità… Se per noi non è possibile ascendere di colpo alla santità dell’obbedienza e della fede, tentiamo almeno di non farci condizionare dalle tentazioni”. Dunque, non parlate a Ralph di Twitter.

Ho cominciato a usare Twitter nel 2009 su insistenza di mio marito, che lavora nel campo della tecnologia. “Cosa dovrei fare, annunciare su internet cosa mangerò a colazione?”, gli ho chiesto. Otto anni dopo sono quella che controlla Twitter mentre mangia un toast a colazione e si prepara per andare a lavoro.

Nel bene e nel male
Twitter è diventato il luogo in cui leggo le notizie, mi tengo in contatto con gli amici, faccio battute o leggo dei bei saggi. Sono da sempre un’ansiosa, e Twitter è il luogo in cui vado per parlare di come mi sento quando provo ansia e forse per trovare un po’ di solidarietà. E poiché da sempre sono un’ansiosa, l’uso di Twitter fa peggiorare la mia ansia. La comunità di persone che la pensano come me, che mi sono costruita su Twitter, ha fatto sì che confessare uno stato di ansia sia più facile che mai, ma il confronto reso possibile da Twitter rende l’esperienza dell’ansia ancora peggiore. E se si parla di Twitter, si è obbligati ad accettare il bene e il male che comporta.

Gli psicologi di solito distinguono due tipi di ansia: quella di tratto, una tendenza persistente e duratura a provare paura e preoccupazione, e l’ansia di stato, una temporanea reazione di paura a una situazione minacciosa. Se è vero che molti social network possono suscitare entrambe le forme di ansia, da questo punto di vista Twitter è forse il peggiore, poiché ricorda a chi è afflitto da ansia perenne che c’è sempre qualcosa di cui preoccuparsi e instilla un senso di ansia perfino nell’utente più rilassato.

Twitter è un megafono per i risultati e una lente di ingrandimento per le insicurezze

Il costante flusso di nuove informazioni su Twitter e il fatto che gli utenti tendono a seguire persone che sono più realizzate e hanno più successo di loro creano un cocktail a base di confronti e paragoni che risulta particolarmente forte a chi è ansioso. “Twitter stimola moltissimo la mia ansia professionale”, dice Caitlin Cruz, una giornalista freelance di New York. “Ma mi ha anche permesso di avere un ottimo successo professionale”. Qualche settimana fa Cruz ha cancellato dal suo smartphone la app di Twitter, un gesto che a suo dire ha reso la sua vita più tollerabile.

Gli utenti di Twitter devono vedersela con voci che fanno a gara a urlarti addosso appena accedi. Non hai ancora scritto un best seller? Ecco una lista di “Trenta scrittrici under-trenta” di successo! Hai più di trent’anni? Ecco un articolo che ti dice che pessimo genitore sei! Non hai ancora figli? Questa scrittrice ne ha tre e ha meno di trent’anni! Twitter è un megafono per i risultati e una lente di ingrandimento per le insicurezze, e quando cominci a confrontare le tue insicurezze con i risultati raggiunti dagli altri, ecco la ricetta perfetta per l’ansia.

Un modo per quantificare
“In generale i confronti che facciamo sui social sono tendenzialmente ‘verso l’alto’”, afferma Azadeh Aalai, docente di psicologia al Montgomery college del Maryland. “Ci confrontiamo con persone che sembrano avere uno status superiore e ottenere risultati migliori” dei nostri, e questo può provocare sentimenti di invidia, malcontento e ansia. E non è tutto. Quando ero giovane, mia madre mi metteva sempre in guardia dalla tentazione di “confrontare ciò che avevo dentro con ciò che gli altri mostrano all’esterno”.

Con Twitter non faccio altro che confrontare ciò che ho dentro – le mie ansie, i miei timori e le mie insicurezze – con ciò che gli altri lasciano vedere di se stessi: i loro successi, i loro selfie levigati e i loro articoli pubblicati. Ci sarà sempre qualcuno che ha più successo di me sotto ogni punto di vista. E poiché, come molte altre persone, tendo a seguire le persone che ammiro o che sono già famose, sono costantemente consapevole di quanto gli altri siano migliori di me. Twitter inoltre mi offre un modo rapido e pratico per quantificare il mio valore: quanti like ricevo, quanti retweet accumulo. Mi piacerebbe pensare di essere più della somma dei miei follower, ma ci sono molti giorni in cui non mi sento così.

L’ansia funziona ricordandoti costantemente di prestarle attenzione. E lo stesso vale per Twitter, che induce gli utenti a tornare e chiedere sempre di più. Gli smartphone sono progettati apposta per offrire una gratificazione immediata e molte delle caratteristiche di Twitter dipendono dal nostro timore biologico della scarsità.

Per quelli tra noi che lavorano da casa o senza una sede fissa, diventa una sorta di ufficio e le persone con cui interagiamo diventano dei colleghi

È questa l’opinione di Pamela Rutledge, direttrice del Media psychology research center. Le notifiche push, il numerino che cidice quante volte siamo stati citati, la barra che ci dice quanti tweet sono stati inviati dall’ultima volta che abbiamo aggiornato la pagina: tutti questi dettagli sono progettati per costringere gli utenti a tornare nel timore di essersi persi qualcosa di fondamentale. “I social network in realtà non promuovono la moderazione”, dice Aalai (e questa potrebbe essere la minimizzazione dell’anno).

Il desiderio di sapere cosa succede in qualsiasi momento viene appagato una volta che ci si attacca a quella manichetta di informazioni che è Twitter. La mia ansia però schizza alle stelle davanti alla quantità apparentemente infinita di brutte notizie su eventi tragici che accadono in tutto il mondo – attentati dei jihadisti, razzismo sistemico, crisi dei profughi, minacce di guerra, disordini politici.

Molti utenti di Twitter che ho coinvolto per un sondaggio citano la sensazione di impotenza rispetto alla paura schiacciante come una delle principali cause della loro ansia. Anche se di tanto in tanto offre delle soluzioni pratiche – donare a International rescue committee, chiamare un deputato, condividere un link su GoFundMe – Twitter si concentra per lo più sui mali del mondo in un modo che può annientare il senso di una persona di essere efficace e sostituirlo con una profonda disperazione.

Un centro di piacere
Se Twitter è pieno di brutte notizie e alimenta di continuo un confronto che provoca ansia, perché ci stiamo dentro? Alcuni, come la scrittrice Lindy West, hanno abbandonato Twitter a causa delle molestie e del trolling, mentre l’editorialista del New York Times Bret Stephens ha appena annunciato l’intenzione di lasciare Twitter perché ormai è diventato “politica pornificata”, anche se in realtà non se ne andrà davvero. “Continuerò a gestire il mio account Twitter, e spero di mantenere i miei follower”, ha scritto: un assistente editoriale si occuperà di aggiornare il profilo al suo posto. Tutti gli altri utenti però sono ancora lì, forse perché intravedono qualcosa di valore in mezzo ai continui aggiornamenti, le battute e i video piccanti. Twitter offre un senso di cameratismo.

Twitter rappresenta una piattaforma in cui le persone nevrotiche possono condividere le loro paure. E per quelli tra noi che lavorano da casa o senza una sede fissa, diventa una sorta di ufficio e le persone con cui interagiamo diventano dei colleghi. Secondo una recente ricerca dell’università di Harvard, “l’atto di rivelare informazioni sul proprio conto attiva la stessa parte del cervello associata alla sensazione del piacere”.

Lo stesso centro del piacere è attivato dal cibo, dai soldi e dal sesso. Confessare la mia ansia sui social network è dunque un tentativo di non sentirmi così sola. L’ansia isola le persone che ne soffrono, convincendole diessere le uniche a pensare in modo così distorto. Portare alla luce un pensiero così miope ed esaminarlo può aiutare a combatterlo, e Twitter può davvero essere un posto utile per farlo. “Sei ansiosa? Anch’io!”, è il genere di grido di battaglia che unisce le persone ansiose. Ma anche se troviamo la nostra tribù di persone che come noi si preoccupano, l’interrogativo resta: perché usiamo Twitter?

Ecco elencate di seguito, senza un ordine particolare, le ragioni per le quali io uso Twitter: per controllare le notizie, per procrastinare, per vedere che combinano i miei amici, per combattere la noia, per trovare un articolo che volevo leggere, per cercare altre voci a cui dare ascolto, per sentirmi meglio condividendo un mio risultato, per vedere quello che mi dicono gli altri.

In altre parole, Twitter imita molte delle interazioni che ho tutti i giorni, senza però il beneficio di essere faccia a faccia. Chi soffre di ansia sociale può usare Twitter per replicare quelle interazioni che normalmente avvengono di persona, ma l’ansia può restare. Gli utenti di Twitter con cui parlo si preoccupano spesso di come vengono percepiti online e il bisogno di un’approvazione esterna è stato messo in relazione con un crescente senso di ansia sui social network. Una persona può trovare sia solidarietà sia isolamento su Twitter, e questo fa parte dell’attrazione magnetica di questo mezzo: non sai mai come ti sentirai quando lo apri.

Non c’è una reale necessità di scorrere di continuo il feed alla ricerca di possibili minacce

Rutledge incoraggia gli utenti di Twitter a pensare ai motivi per i quali sono online. “Se controlli Twitter cento volte al giorno, cosa stai evitando di fare?”, chiede. “È questo il caso in cui si ha bisogno di un meccanismo di esclusione cognitiva”, ossia la capacità di distanziarsi dall’istante presente e di valutare quanto siano realistici i propri sentimenti tenuto conto dell’utilizzo di questa tecnologia. “Quando siamo ansiosi, ci sentiamo obbligati a scandagliare di continuo l’ambiente”, afferma Rutledge. “È così che ci riusciamo a sentirci al sicuro”. È quello che facevano i nostri antenati per prevenire gli attacchi di nemici o di tigri dai denti a sciabola, ma oggi il vantaggio non è più così evidente. Tenuto conto del fatto che viviamo in un mondo sufficientemente connesso da garantirci di non perderci nessuna notizia importante, non c’è una reale necessità di scorrere di continuo il feed alla ricerca di possibili minacce.

Il ciclo dell’ansia nell’uso di Twitter può essere particolarmente negativo per le donne, per le persone non binarie e queer e per le persone non bianche. “I gruppi vulnerabili nelle interazioni faccia a faccia saranno altrettanto vulnerabili nelle interazioni virtuali”, dice Aalai. Si tratta spesso di persone che traggono enormi benefici da Twitter perché possono parlare in modo diretto al pubblico amichevole che li segue, tagliando fuori la possibilità di subire le molestie a cui sarebbero soggette altrove.

Ma tra i follower ci sono anche i troll: una ricerca del 2014 dell’istituto Pew dimostra come il 25 per cento delle donne di età compresa tra i 18 e i 24 anni abbia subìto molestie sessuali online (tra i ragazzi la percentuale scende al 13 per cento), e che il 23 per cento ha subìto minacce fisiche. Il 51 per cento di utenti Twitter afro-americani e il 54 per cento di latinos hanno subìto forme di molestie online, una percentuale che tra gli utenti bianchi scende al 34 per cento.

“Dovete decidere in modo consapevole se Twitter rappresenta ancora un valore aggiunto”, afferma Rutledge. La difficoltà sta nel fatto che il “valore” è qualcosa di assolutamente soggettivo ed è difficile prendere (buone) decisioni quando il nostro cervello non è al pieno delle sue capacità. Una recente ricerca dell’università di Chicago ha evidenziato come “la semplice presenza del proprio smartphone riduca la capacità cognitiva disponibile”. E in un articolo pubblicato di recente su New Republic è stato chiesto ai giornalisti se pensavano di poter vivere senza Twitter. Tutti hanno risposto “no”, anche se molti hanno ammesso che la vita senza Twitter sarebbe stata “migliore”. Questo mi ricorda quello che dice l’apostolo Paolo sul peccato nella Lettera ai romani: “Non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto”.

Le vite degli altri
Nel 1855 il poeta Walt Whitman spedì a Ralph Waldo Emerson una copia della sua raccolta di poesie appena pubblicata, Foglie d’erba. “Lo considero oggi il più straordinario contributo di genio e saggezza dell’America”, gli scrisse Emerson. “Ti saluto all’inizio di una grande carriera, che di sicuro da qualche parte avrà già avuto un lungo apprendistato, visto l’avvio”. Emerson vide nella commovente poesia di Whitman la lunga e accurata carriera della pratica devota che l’aveva preceduta.

Anni dopo, l’amministratore delegato di Twitter Jack Dorsey ha dichiarato che Foglie d’erba è uno dei libri che più l’hanno influenzato nella sua carriera, paragonando la sua “efficienza” a una straordinaria programmazione. Dorsey non sembrava cogliere il paradosso insito nel fatto che Whitman ci avesse messo anni per dare vita a quella lingua così efficiente che ammirava tanto, e ha definito Whitman un “imprenditore totale”, cercando, come facciamo tutti, i propri valori in una persona che ammira.

E questa è una delle ragioni per cui le persone sono attirate da Twitter: offre loro l’accesso alle vite interiori di persone con le quali altrimenti non interagirebbero mai. Così facendo però possono cominciare a temere che non diventeranno mai chi desiderano essere, che non saranno mai così intelligenti, o prolifiche, o originali, o belli come l’insieme variegato delle persone che seguono. È proprio in questo divario che prospera l’ansia.

Nel frattempo non vedo l’ora di sapere cosa sta succedendo nel mondo. Chi sa cos’è successo da quando ho cominciato a scrivere? C’è qualche nuovo scandalo politico? Qualcuno ha twittato qualcosa di vergognoso? Che contributo sto dando alle persone che seguo? So che potrei aspettare. Potrei andare a fare una passeggiata, o leggere un libro, o fare un bagno. Ma credo che controllerò. Solo un’altra volta.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato da The Atlantic.

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