03 dicembre 2021 15:00

È uscito il sessantesimo film d’animazione della Disney: s’intitola Encanto, ed è ispirato alla cultura e alle diversità della Colombia. Racconta la storia della famiglia Madrigal, in cui tutti hanno un dono magico, a eccezione della protagonista, Mirabel. Il 3 novembre la pellicola è stata proiettata in anteprima al Capitan theatre di Los Angeles, presente l’intera squadra: i registi Byron Howard, vincitore dell’Oscar per il miglior film d’animazione con Zootropolis (2016), e Jared Bush; la coregista Charise Castro Smith che, insieme a Bush, si è occupata della sceneggiatura; e gli attori, colombiani o di origine latina, che hanno dato voce ai personaggi. Il 19 novembre è uscita la colonna sonora composta da Lin-Manuel Miranda e Germaine Franco.

Il 22 novembre c’è stata la prima al teatro Colón di Bogotá, capitale della Colombia, il cui ingresso – per evocare il film – era ricoperto di fiori. E due giorni dopo l’artista Ledania ha dipinto un murale nel centro di Bogotá con la sua reinterpretazione della storia.

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Ma la storia di Encanto è cominciata molto prima, almeno cinque anni fa, quando i registi Howard e Bush, con una lunga esperienza nel campo dell’animazione, contattarono Lin-Manuel Miranda. Avevano chiare due cose: volevano realizzare un musical e doveva parlare della famiglia. Pensarono di ambientarlo in America Latina e partirono per la Colombia. Visitarono Bogotá e le miniere di sale di Zipaquirá, nel dipartimento di Cundinamarca, dove c’è uno dei santuari cattolici più famosi nel paese, l’eje cafetero, la regione del caffè colombiano, la città di Cartagena e San Basilio de Palenque, un villaggio dove per la prima volta una comunità di schiavi nelle Americhe riuscì a ottenere la libertà, patrimonio immateriale dell’umanità.

Nelle foto del viaggio Lin-Manuel Miranda è immortalato davanti alle magnifiche montagne della Cordillera, mentre Byron Howard sorride nella valle de Cocora, dove cresce la palma da cera del Quindío, l’albero simbolo del paese. Prima di rientrare a Los Angeles, andarono anche nella cittadina coloniale di Barichara.

Lì viveva Alejandra Espinosa Uribe, letterata di professione, proprietaria di una libreria e guida turistica. Oggi Espinosa Uribe ricorda quando, nel 2017, “alcune persone della Disney che volevano girare un film sulla Colombia” la contattarono per un tour culturale e storico della regione. Lei conosceva bene la storia del dipartimento di Santander, dove “le tradizioni sono ancora vive e si può viaggiare nel presente e nel passato del paese, perché la sua storia si svolge nei villaggi e nelle zone rurali”. Con le sue doti dialettiche – simili a quelle di Mirabel, la protagonista del film, che come lei porta gli occhiali e ha i capelli ricci – Espinosa Uribe accompagnò il gruppo a visitare le guaraperías, dove si fermenta il guarapo (il succo della canna da zucchero), a osservare il lavoro dei tagliapietre e quello dei fabbricanti del cappello tipico colombiano, il sombrero in tessuto. Mostrò loro le strade di ciottoli e le case costruite con la terra. Dopo un mese ricevette l’offerta di lavorare come consulente per il film, un segreto che ha mantenuto per quattro anni.

Entusiasmo senza magia
La famiglia Madrigal è numerosa e variopinta. È guidata dalla nonna Alma, una donna generosa, anche se autoritaria. Molto tempo prima lei, il marito e i tre gemelli Julieta, Pepa e Bruno furono costretti a lasciare la loro casa. Un possibile riferimento al dramma degli sfollati interni al paese durante il conflitto civile, che secondo il Centro nacional de memoria histórica ha provocato più di sei milioni di vittime. Quando il marito si perse, Alma si ritrovò da sola con i tre bambini. Insieme raggiunsero una valle incantata dove si stabilirono in una casa con vita propria.

Lì i tre bambini ricevettero dei poteri magici: Julieta quello di curare attraverso il cibo che cucina, Pepa quello di controllare il clima con le sue emozioni e Bruno quello di predire il futuro, motivo per cui è emarginato dal resto del paese. Più tardi Julieta sposa Agustín e dal loro matrimonio nascono Isabel, Luisa e Mirabel. Le sorelle di Mirabel – e i suoi cugini Dolores, Camilo e Antonio – hanno dei poteri. Isabel fa fiorire le piante, Luisa possiede una forza fuori dal comune, Dolores ha un udito acuto, Camilo cambia aspetto quando vuole e Antonio parla con gli animali. Come loro, anche Mirabel da bambina aveva eseguito un rito per ottenere l’encanto, ovvero il dono che l’avrebbe resa magica e incantevole, ma con delusione della nonna Alma non aveva funzionato. Ora Mirabel è una ragazza “simpatica, umana, empatica, sensibile e un po’ strana”, secondo il regista Jared Bush. Cerca di compensare la mancanza della magia con l’entusiasmo, ma si sente insicura, sola, non meritevole dell’amore di sua nonna e in debito con la famiglia che prova a salvare quando la magia viene messa in pericolo.

Encanto non si concentra su un personaggio, ma è la storia di una famiglia”, dice Espinosa Uribe. Secondo lei la casa in cui vivono, chiamata casita, è un personaggio ulteriore. Situata in un luogo indefinito tra Barichara, Cartagena e la valle de Cocora, la casa è piena di oggetti che evocano l’essenza colombiana: balconi con buganvillea e farfalle gialle, pappagalli e tucani, campi di caffè e mais, una cucina con cucchiaioni di legno e ceste di vimini dove si preparano piatti come le arepas, focaccine di farina di mais, e l’ajiaco, una zuppa.

“Il primo passo è stato far conoscere ai registi la storia del paese. Non sono informazioni che si vedono nel film, ma servivano affinché l’universo che volevano presentare avesse un senso logico e fosse verosimile”, spiega Espinosa Uribe. “Gli ho parlato dell’identità, delle radici africane, ispaniche e indigene alla base della diversità colombiana. Il film non si svolge in un periodo specifico, ma più o meno all’inizio del ventesimo secolo”.

È stata lei a suggerire che Mirabel avesse un legame con la nonna Alma e non con il nonno, com’era previsto originariamente, perché “in America Latina sono le donne che hanno il compito di tramandare”. Ha inoltre insistito affinché i personaggi muovessero i muscoli del viso, in modo che fossero espressivi, e che parlassero gesticolando.

Nel frattempo, il team di Encanto aveva creato un fondo culturale colombiano, con esperti in antropologia, abbigliamento, biologia e architettura. Tra di loro c’era anche la giornalista Edna Liliana Valencia, che si batte contro la rappresentazione stereotipata della popolazione afrodiscendente sui mezzi d’informazione. La Disney le propose di lavorare come consulente per la parte africana, presente in Encanto con molteplici dettagli e due componenti della famiglia: Félix, che viene dalla regione dei Caraibi, e Antonio, suo figlio.

“Ho lavorato molto su Antonio, il più piccolo della famiglia. La sua stanza doveva essere incentrata sul tema della biodiversità. Quando me l’hanno detto, ho risposto: ‘Allora la camera di Antonio dev’essere come la foresta tropicale del Chocó’. ‘E com’è?’, mi hanno chiesto. ‘Oltre all’Amazzonia, abbiamo anche il Chocó, una delle foreste tropicali con la maggiore biodiversità di tutto il pianeta’, ho spiegato. Erano entusiasti”.

Tuttavia il contributo di cui Liliana Valencia si sente più orgogliosa sono i capelli dei personaggi. “Tutti i personaggi hanno i capelli afro naturali e Mirabel – che come la maggior parte dei colombiani ha origini miste – li ha ondulati. Mi sono seduta insieme alla squadra di produzione e ho spiegato che ci sono vari tipi di ricci. Ho detto: ‘Noi donne afrodiscendenti siamo cresciute pensando che i nostri capelli siano brutti, poco professionali, disordinati. Nel Chocó le donne si lisciano i capelli con la soda caustica, a cui aggiungono carota o avocado perché l’effetto sia meno intenso. Si applicano l’intruglio una volta al mese finché non restano calve’. Per la prima volta nella storia della Disney si vedono personaggi afrodiscendenti con i capelli naturali”.

Mauro Castillo, compositore e trombettista colombiano, presta la voce a Félix, personaggio che definisce amante della musica. “Io sono un cantante di salsa”, spiega su Zoom. “La canzone a cui prendo parte (We don’t talk about Bruno) ha a che fare con la salsa, con il ritmo latino. La colonna sonora del film è incredibile. Lin-Manuel Miranda e Germaine Franco sono stati in Colombia e hanno unito elementi mainstream e altri della nostra cultura. Ci sono parecchie sfumature che ti fanno percepire i paesaggi. Germaine Franco ha portato a Los Angeles le marimba del Pacifico, i cununos e i tamburi. Che bello che si cominci a riconoscere il tamburo come elemento di comunicazione non solo nella cumbia, ma anche in altre musiche come il currulao, una testimonianza della diaspora africana che ci ha portato nel paese”.

La catarsi nel rapporto tra Mirabel e la nonna richiama la ricerca della Colombia del perdono e della riconciliazione come paese

Forse una delle sfide principali di Encanto è stata mostrare la diversità senza trasformarla in un’accozzaglia di cose, spazi e personaggi che non avrebbero motivo di stare insieme. Lo scrittore, giornalista e critico cinematografico Ricardo Silva Romero ricorda che, negli anni quaranta e cinquanta, la Disney aveva parlato dell’America Latina in film d’animazione come I tre caballeros e Saludos amigos. Era un tentativo di comprendere la cultura locale, anche se lo sguardo si concentrava più su paesi come Messico, Argentina e Brasile. Al telefono, Silva Romero dice che “alla Disney avevano uno sguardo tipico da guerra fredda, stavano sul chi va là e il risultato erano delle caricature di certe culture. Ma film recenti come Luca o Coco, della Pixar, fanno pensare che oggi le ricerche siano più serie”. Tuttavia, secondo lui, esiste uno sguardo sulla Colombia che corre il rischio di essere “esuberante e macondiano”, un ventaglio di colori che alla fine sembra un negozietto di oggetti artigianali. “Tutti i paesi hanno i loro simboli”, afferma. “Nei film inglesi c’è il Big Ben, in quelli francesi la torre Eiffel. Per quanto riguarda la Colombia, non sono sicuro che quei simboli siano utili a capire il paese. Il sombrero e la mochila, la borsa a tracolla colorata, non spiegano cosa succede davvero nel paese. Perché il vero protagonista qui è la violenza e i simboli allegri o il paesaggio mozzafiato sono solo una facciata che la nasconde”.

Il real meravilloso, come lo scrittore cubano Alejo Carpentier definì il realismo magico, è usato e interpretato nei modi più strani nel paese. Secondo Silva Romero “è la risposta al dramma sociale. Siamo nella miseria, ma tutto è bellissimo, un miracolo. Nel caso di Gabriel García Márquez e degli autori del cosiddetto boom latinoamericano c’è un tranello, perché loro erano politici e denunciavano il dramma della miseria. E risalta chiaramente nei loro romanzi dove ci sono l’oblio e l’abbandono da parte dello stato. Sono libri pieni di desolazione e tristezza. Ci sono persone che soffrono la fame e persone rovinate che curiosamente hanno sempre tratti somatici un po’ fantastici. La tv colombiana si è appropriata di questo lato simpatico e, negli anni ottanta, le telenovela in stile Macondo (dal nome del villaggio fittizio di alcuni romanzi di García Márquez) sono state parecchie. Ma è una trappola a doppio senso: da un lato tutto assume un sapore artigianale e dall’altro si coglie una sorta di compiacimento per il fatto che quel mondo rappresenti il fallimento della società colombiana. Cent’anni di solitudine dice proprio questo: poiché non esiste spirito di solidarietà, allora tutto ciò non ha futuro”.

Proprio per non cadere in semplificazioni, nel viaggio a Barichara Alejandra Espinosa Uribe parlò ai registi di Encanto del concetto di real maravilloso, che in parte ha poi ispirato il film: “Secondo me, la base del real maravilloso risiede nelle nostre tre radici, quella africana, quella indigena e quella spagnola. Dal loro intreccio nasce un modo diverso di leggere la realtà, di concepirci nel mondo. È lì che s’inseriscono il pensiero magico delle cosmogonie indigene e le mitologie africane. Nelle radici c’è un modo di abitare il mondo che è diverso da quello occidentale, materialista e binario”, dice.

Espinosa Uribe ha una sua interpretazione – assolutamente personale – del film. Secondo lei, la ricerca di Mirabel della propria identità è la stessa condotta dalla Colombia “come nazione e progetto collettivo. Credo che il viaggio di Mirabel inviti lo spettatore colombiano a chiedersi chi siamo e qual è il nostro spazio. La catarsi nel rapporto tra Mirabel e la nonna è la parte più commovente del film, perché richiama la nostra stessa ricerca del perdono e della riconciliazione come paese”.

(Traduzione di Sara Cavarero)

Questo articolo è stato pubblicato su Gatopardo.

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