28 ottobre 2020 13:23

Rintanato dall’inizio di ottobre in fondo a un buco polveroso intorno alla città di Horadiz, in Azerbaigian, mentre fuori piovono granate ogni due secondi, Mostafa Qanti è uno dei pochi a poter filmare queste trincee che ogni giorno ingoiano decine di uomini. Lontano dagli sguardi del mondo, sul fronte del Nagorno Karabakh. “Dio, proteggici. Ci hanno massacrati. Questi cani armeni… Hanno massacrato i ragazzi…”.

Mostafa Qanti è un mercenario di 23 anni. Ha partecipato alla ribellione in Siria ed è originario di Hayyan, un borgata a nord di Aleppo tornata sotto il controllo del regime di Damasco. Rifugiato in uno dei tanti campi profughi improvvisati in cui si ammassano decine di migliaia di famiglie, Qanti è stato reclutato dalla divisione Hamza, una fazione armata siriana che si è riciclata come milizia ausiliaria della Turchia. Pensava di partire per la Libia, ma è stato mandato in Azerbaigian, come più di un migliaio di suoi compatrioti.

Dopo la Tripolitania – dove sono schierate dallo scorso inverno a difesa della capitale libica, minacciata dalle forze del generale Haftar – queste milizie sono state inviate da Ankara sulle montagne del Caucaso per sostenere l’esercito dell’Azerbaigian. Il 5 ottobre il sito d’informazione Jesrpres, che aveva ottenuto le immagini della frettolosa sepoltura notturna di alcuni combattenti della brigata Sultan Murad, calcolava in 85 il numero di mercenari uccisi in appena dieci giorni di combattimenti. La questione è delicata: i parenti dei combattenti scomparsi si rifiutano di parlare, anche dopo aver annunciato la morte dei loro cari. Secondo stime più recenti, ma non verificabili, i combattenti stranieri uccisi in Nagorno Karabakh sono più di 150.

La nostra guerra
“Il comando vuole avanzare il più rapidamente possibile prima di un cessate il fuoco”, dice Mohamed, schierato nel sud della repubblica separatista. Il miliziano, che sostiene di avere 24 anni, non si dilunga sulle condizioni del suo arruolamento. Parla invece di marce forzate senza un giorno di riposo, di combattimenti sanguinosi – “dovevamo conquistare delle alture”– e di martiri. È un termine che fa trasalire. “Che Dio gli conceda la sua misericordia, ma che maledica chi ha fatto commercio del loro sangue”, esclama un parente di un ex ribelle sepolto all’inizio di ottobre ad Azzar.

Ahmed Ferzane, un attivista originario di Rastan, da dove viene almeno una mezza dozzina di combattenti uccisi in Azerbaigian, è colmo di rabbia. Parla di un ennesimo tradimento e delle tante vite bruciate. In un video postato sulla sua pagina Facebook, descrive così gli uomini spinti dalla miseria ad arruolarsi in una guerra che non li riguarda affatto: “I giovani sono stati ingannati dai comandanti dei gruppi armati. Gli hanno detto che avrebbero fatto i poliziotti o le guardie alla frontiera, senza partecipare ai combattimenti. Chi è partito non ha neanche di che sfamare i propri figli. L’inverno è passato, e anche l’estate, e questi uomini continuano a non riuscire a provvedere ai bisogni delle loro famiglie”.

Secondo quanto racconta Ferzane, le somme promesse, considerevoli nel contesto di una Siria devastata da dieci anni di guerra, finiscono spesso nelle tasche di avidi capi delle milizie. “Ai combattenti arriva solo il 20 per cento di quanto pattuito. I turchi versano tra gli 800 e i 900 dollari per ciascun soldato, e i comandanti se ne intascano fino a 700. I giovani pensano di stare via due o tre mesi. Sono convinti che non sia poi così pericoloso e che metteranno da parte tra i duemila e i tremila dollari prima di tornare a casa. Invece sono subito mandati in prima linea. E intanto i loro reclutatori accumulano automobili e ville in Siria”.

“Questa non è la nostra guerra. E laggiù non troverete nessuna gloria. Solo la morte”, conclude Ahmed Ferzane, rivolgendosi a chi potrebbe essere tentato dall’avventura.

Il ruolo della religione
L’invio di combattenti in Libia e in Azerbaigian rivela la miseria di molti siriani. Di cui qualcuno approfitta. Intorno alle attività dei capi delle tre fazioni filoturche coinvolte (la divisione Hamza e le brigate Sultan Murad e Sultan Suleiman Chan) prospera un’intera economia dei mercenari, con reclutatori e procacciatori di braccia per la guerra. Uno dei centri nevralgici di quest’attività è una grande struttura costruita lungo la frontiera turco-siriana, a Hiwar Kilis. Là decine di reclute, vestite con le uniformi dei poliziotti di frontiera azeri, sono addestrate in modo sommario prima di essere inviate in aereo a Baku.

I predicatori al soldo delle milizie hanno il compito di dare a tutto questo una patina religiosa, cosa che fanno prendendosi non poche libertà nel descrivere la destinazione delle future reclute. Nel nord della Siria si è spesso fatto ricorso all’identità sunnita della popolazione per alimentare la mobilitazione contro il regime di Damasco o le milizie sciite sostenute da Teheran. “La nostra guerra in Azerbaigian non è meno importante di quella che combattiamo qui. L’Azerbaigian è un paese sostanzialmente sunnita. La percentuale di sciiti è del 50 per cento, come quella dei sunniti”, proclamava a pieni polmoni un imam nei pressi di Azzaz lo scorso 8 ottobre. In realtà, secondo le statistiche ufficiali, in Azerbaigian i musulmani di rito sciita rappresentano l’85 per cento della popolazione di confessione musulmana.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano francese Le Monde.

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