26 marzo 2015 16:55
Mark Zuckerberg, amministratore delegato di Facebook, al congresso annuale dell’azienda a San Francisco, il 22 settembre 2011. (Justin Sullivan, Getty Images)

Un tempo l’idea che un lettore potesse leggere un articolo del New York Times senza mai prendere in mano un giornale sarebbe sembrata ridicola. Oggi gli articoli del quotidiano si trovano ovunque e le sue notizie sono diffuse su carta stampata, sul sito e su varie app.

Tra sei mesi, però, potreste leggere un articolo del quotidiano senza mai usare nulla che abbia il suo marchio. Il 24 marzo il New York Times ha annunciato di voler considerare l’idea di pubblicare alcuni articoli direttamente su Facebook. Questi articoli comparirebbero nel news feed più o meno come notizie normali, ma invece di mandare le persone sui server del New York Times li manderebbe su quelli di Facebook.

Ci sono ancora molti interrogativi su questa scelta, che potrebbero seguire anche BuzzFeed e il National Geographic. Non sappiamo come (o se) Facebook dividerà i profitti con i suoi soci, né in che modo questi accordi potrebbero cambiare in futuro. E non sappiamo neanche con precisione quale sarà l’aspetto di questo nuovo tipo di pubblicazione o degli articoli.

D’altra parte, non è una mossa inaspettata. La notizia che un accordo era in programma era già affiorata a ottobre del 2014, quando il reporter del Times, David Carr, aveva scritto che questa soluzione avrebbe trasformato i mezzi d’informazione in “schiavi in un regno controllato da Facebook”. Il social network esercita un influsso enorme sul giornalismo almeno da agosto del 2013, quando per la prima volta ha modificato l’algoritmo che controlla il news feed per aumentare il traffico verso i siti d’informazione.

Oggi i mezzi d’informazione online dipendono molto da Facebook. Vox riceve dal sito il 40 per cento del suo traffico e, a febbraio, Justin Smith, l’amministratore delegato di Bloomberg Media, ha affermato che “la lista dei siti che devono gran parte del traffico a Facebook è molto più lunga di quanto si pensi”.

Per i giornali si aprono diverse prospettive terrificanti. Da un parte, pubblicare i contenuti direttamente su Facebook permetterebbe di caricare gli articoli più velocemente (e questa possibilità consentirebbe al social network di guadagnare milioni). D’altra parte, però, diminuirebbe l’indipendenza delle testate. L’enorme attenzione prodotta da Facebook è qualcosa su cui i mezzi d’informazione hanno poco margine di trattativa: o ne approfittano e ci investono, oppure perdono il turno.

Ma l’idea di quel che verrà dopo è ancora più preoccupante. Cosa succederà se, per esempio, nella fase di contrazione economica del 2018 Facebook (che ormai farà la parte del leone nel campo della distribuzione delle notizie) imporrà nuovi termini di spartizione delle entrate con i giornali e diventerà di fatto un Walmart dell’informazione? Facebook diventerà un gelido negoziatore o un benevolo sostenitore di un’informazione vivace e variegata?

Consideriamo questa ipotesi: Facebook sceglie un paio di testate giornalistiche e gli chiede di investire grosse somme su uno strumento che attribuisce agli articoli (ad articoli di giornale!) un ranking senza precedenti nel feed dei suoi utenti. Le testate accettano e per qualche mese questi giornali registrano un forte aumento delle visite. Poi un giorno gli ingegneri di Facebook si rendono conto che il nuovo strumento riduce il coinvolgimento degli utenti, e gradualmente lo fa sparire.

È già successo! Meno di tre anni fa. Nel settembre 2011, in occasione del congresso annuale degli sviluppatori, Facebook ha annunciato che alcuni mezzi d’informazione avevano creato app di “lettura social” che mettevano in risalto i loro contenuti nel news feed. Il Washington Post aveva realizzato la versione pilota e aveva funzionato: milioni di nuovi utenti avevano cominciato a leggere gli articoli del quotidiano.

Ma poi la storia si è conclusa così: il 9 aprile 2012 più di quattro milioni di persone usavano l’app del Washington Post, e tre giorni dopo quasi nessuno la usava più.

I dati devono aver indicato che agli utenti di Facebook non piacevano le app che Facebook aveva lanciato in collaborazione con alcuni giornali. Ben presto è sparita ogni traccia dei lettori, e anche di quel traffico miracoloso (all’inizio c’è stato un certo dibattito su come interpretare i dati, ma quella tendenza si è rivelata reale e i mezzi d’informazione hanno spostato le loro energie su altri progetti).

A quanto possiamo capire, Facebook sta chiedendo ai giornali di pubblicare gli articoli direttamente sul social network perché così aumenterà “il coinvolgimento” degli utenti. Un secondo in meno mentre aspettate che si carichi un articolo è un secondo in più in cui Facebook può mostrarvi la sua pubblicità, e questo, su larga scala, si traduce in un’enorme opportunità di guadagno.

Ma pensate all’importanza di questi piccoli dettagli: perfino un aumento di un decimo di secondo della velocità comporta guadagni giganteschi per Facebook. Il social network, perciò, ha assunto personale, ha investito tempo e si è imbarcato in questa impresa per recuperare milioni di quei millisecondi. L’azienda si darà molto da fare per soddisfare il dio del coinvolgimento: in effetti darsi molto da fare in ogni momento è un imperativo nel mondo degli affari. Ma la storia dimostra che questo idolo può essere molto incostante e imprevedibile.

(Questo articolo è uscito sull’Atlantic. Traduzione di Floriana Pagano)

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