13 aprile 2018 15:05

Questo articolo è uscito il 13 gennaio 2006 nel numero 624 di Internazionale, a pagina 26. L’originale era uscito su Legal affairs con il titolo Lessons from the swiss cheese map.

Era il settembre del 1995 e da alcuni mesi andavano avanti i negoziati su quello che doveva essere il primo ritiro significativo di forze israeliane dalla Cisgiordania. Mancavano solo ventiquattr’ore alla scadenza prevista per la firma del cosiddetto accordo di Oslo II quando la delegazione israeliana presentò alla controparte palestinese l’ormai famigerata “cartina-groviera” (figura 1). Non appena la vide, Yasser Arafat si infuriò e abbandonò il tavolo delle trattative.

1. Cartina ufficiale dell’accordo di Oslo II

Nelle sue memorie, il capo dei negoziatori israeliani Uri Savir descrive così la reazione del leader palestinese: “Arafat scrutò la cartina in silenzio con sguardo carico d’odio, poi si alzò di scatto dalla sedia gridando che era un’umiliazione intollerabile: ‘Ma questi sono solo cantoni! Voi pretendete che io accetti dei cantoni! Ma allora volete distruggermi!’”.

Fino a quel momento, la delegazione israeliana aveva insistito perché al centro delle discussioni ci fosse il testo dell’accordo, già passato per tante stesure diverse, e non si parlasse di carte geografiche. All’epoca io accompagnavo la delegazione israeliana in veste di ufficiale dell’esercito. Con il tempo avevo imparato ad apprezzare la cura meticolosa con cui si concordavano e si modulavano le espressioni verbali da usare nella stesura dell’accordo. Uno dei miei compiti era quello di tradurne via via dei passi in ebraico (la lingua ufficiale era l’inglese), in modo che il testo integrale fosse pronto al momento della firma dell’intesa e potesse essere immediatamente inviato alla Knesset, il parlamento israeliano, per la ratifica.

Nelle settimane conclusive della maratona negoziale dovevo ricevere la stesura definitiva, aggiornare la mia traduzione tenendo conto delle correzioni e poi rivedere il tutto insieme a Gilad Sher, uno dei legali più stimati della nostra delegazione. Ogni parola andava soppesata con cura. Per esempio l’accordo prevedeva che le truppe israeliane fossero “ridispiegate” – e non “ritirate” – da alcune parti della “Cisgiordania”, e non dalle terre bibliche di “Giudea e Samaria”. Inoltre non conteneva alcuna menzione di un futuro stato palestinese, ma dichiarava che il fine ultimo del processo di Oslo era raggiungere “una soluzione permanente fondata sulle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza dell’Onu”. Queste risoluzioni impongono a Israele di ritirarsi dai Territori occupati nella guerra del 1967, Cisgiordania compresa.

L’accordo ad interim, frutto delle cosiddette trattative di Oslo II, divideva la Cisgiordania in tre zone: A, B e C. La zona A, che comprendeva i centri più popolosi della Cisgiordania, ma rappresentava solo il 3 per cento del suo territorio, sarebbe stata trasferita immediatamente sotto il pieno controllo dei palestinesi. La zona B, che era meno densamente popolata e costituiva il 24 per cento della Cisgiordania, sarebbe stata sottoposta a un controllo congiunto israeliano-palestinese. Infine il resto della Cisgiordania, cioè la zona C, sarebbe rimasto inizialmente sotto il pieno controllo israeliano, in attesa di ulteriori ritiri israeliani da effettuarsi in fasi successive. Molte disposizioni dell’intesa tendevano a minimizzare il fatto che il 73 per cento della Cisgiordania sarebbe rimasto in mani israeliane. Per esempio, per definire la zona C si parlava di aree che “fatte salve le questioni che saranno ngoziate nelle trattative sullo status permanente, saranno gradualmente trasferite sotto la giurisdizione palestinese ai sensi del presente accordo”.

Un grafico esperto è in grado di far sembrare inevitabile o impossibile un accordo di pace

Purtroppo la cartina
 principale che accompagnava il testo comunicava esattamente il contrario.
 Infatti, nella carta annessa
 all’accordo ad interim finale gli elementi dominanti sul piano visivo sono decine di chiazze di color giallo brillante, completamente scollegate tra loro, ciascuna delle quali circondata da una spessa linea rossa che ne accentua ulteriormente l’isolamento. A un più attento esame si notano anche otto chiazze marroni: raffigurano la zona A, quella trasferita sotto il pieno controllo palestinese, mentre l’arcipelago giallo è la zona B, sottoposta a controllo congiunto. Dalla legenda della cartina manca completamente la zona C e non c’è traccia del confine del 1967: un’assenza inquietante, perché lascia intendere che il destino di quel 73 per cento della Cisgiordania – da cui pure si prevedono ulteriori ritiri di forze israeliane – è già stato deciso in senso favorevole a Israele.

Dopo lo spettacolare abbandono delle trattative da parte di Arafat, gli israeliani decisero di aumentare del 5 per cento la proposta iniziale relativa all’area contrassegnata in giallo, cioè la zona B. Il leader palestinese firmò l’accordo, ma i suoi oppositori lo derisero per aver accettato quella cartina-groviera, dove i territori sottoposti alla sovranità palestinese si presentavano come una distesa di buchi. Insomma quella mappa ufficiale confermò le tesi di chi, come Edward Said, criticò l’intesa considerandola un’umiliante capitolazione palestinese di fronte all’espansionismo israeliano.

Alcuni sostengono che il processo di Oslo fu deliberatamente architettato in modo da segregare i palestinesi in enclave isolate e permettere a Israele di continuare a occupare la Cisgiordania senza però doversi accollare l’onere di vigilare sulla sua popolazione. Se questo è vero, allora forse la cartina rivelò involontariamente ciò che i negoziatori israeliani avevano fatto di tutto per nascondere. O forse invece i negoziatori israeliani evidenziarono di proposito la discontinuità delle aree palestinesi per tranquillizzare l’opposizione di destra in Israele, pur sapendo che Arafat si sarebbe infuriato. Non è vera né l’una né l’altra cosa. Posso dirlo perché ho contribuito a realizzare la carta geografica ufficiale di Oslo II, pur non avendo in quel momento la minima idea di quel che stavo facendo. So solo che una sera, durante le trattative, il mio comandante venne a prendermi all’albergo dove si svolgevano i colloqui e mi portò in una base dell’esercito. Qui mi fece entrare in una sala dove c’erano dei grandi tavoli illuminati da luci fluorescenti e delle carte geografiche sparse ovunque. Mi consegnò alcuni evidenziatori mezzi consumati, srotolò una cartina che non avevo mai 
visto e mi diede istruzioni per tracciarvi sopra linee e contorni: soltanto per renderli più 
chiari, spiegò. Non era presente
nessun cartografo né un grafico che orientasse le mie scelte, e una volta finito non ci fu nessun Gilad Sher con cui rivedere quello che avevo fatto. Nessuno ne capiva l’importanza.

Visioni del mondo
Le carte geografiche non si limitano a fotografare dei dati di fatto, ma – in modo casuale o deliberato – proiettano anche visioni del mondo e servono per affermare certe posizioni. Ogni carta geografica rispecchia cioè una serie di giudizi, e questi influiscono sull’impressione che l’osservatore riceve dai dati raffigurati. Una cartina è una combinazione di tanti aspetti (colori e didascalie, ritaglio delle immagini, selezione di quello che va

incluso e di quello che resta fuori) che formano un insieme visivo. Di volta in volta, quindi, un grafico esperto è in grado di far sembrare inevitabile o impossibile, rassicurante o inquietante, logico o confuso un accordo di pace.

All’osservatore accorto, queste considerazioni appariranno scontate. Ma gli artisti e i grafici sanno che le rappresentazioni visive si possono modulare a volontà, esattamente come quelle verbali. I negoziatori che prendono parte alle trattative tendono ad avere una consapevolezza solo passiva del fatto che anche le cartine, come i grafici e le fotografie, si possono impostare in modo da affermare questa o quella posizione. Ma siccome senza mappe non sono in grado di parlare di confini in modo sensato, sono costretti a servirsi di uno strumento che non padroneggiano, nella speranza che le loro buone intenzioni li portino nella direzione giusta.

Molti dei principi fondamentali della comunicazione visiva ricalcano i più noti principi della buona scrittura. “Per essere incisivo, un testo dev’essere sempre conciso”, insegnano Strunk e White nel loro manuale The elements of style, ormai diventato un classico non solo negli Stati Uniti. “Una frase non deve contenere parole superflue e un paragrafo non deve contenere frasi superflue, per lo stesso motivo per cui un disegno non deve contenere linee superflue e un congegno meccanico non deve avere componenti superflui”. Una tesi simile è sostenuta da Edward Tufte, esperto di information design, che inveisce contro la chartjunk (“spazzatura grafica”), cioè il rumore visivo, insensato e ingombrante, che caratterizza tante

immagini create al computer. Secondo Strunk e White, dietro una prosa efficace si scorge sempre una serie di attente scelte di micro e macro-organizzazione: scrivere bene significa comporre ogni frase e ogni paragrafo in modo strategico, collocando i concetti più importanti in posizione preminente.

Allo stesso modo, Tufte spiega che attenuare certi elementi secondari e strutturali (frecce, griglie, sottolineature, bordi e sfondi, legende e ombreggiature) riduce l’affollamento delle immagini e aiuta a esplicitare visivamente i principali contenuti informativi. Tufte sostiene la necessità di osservare una “gerarchia visiva”: evidenziando tutto si finisce col non evidenziare nulla e si rischia “un’immagine sovraccarica, ingombra, ma al tempo stesso povera di contenuto informativo”.

Quando fu realizzata la cartina dell’accordo ad interim, la principale difficoltà concettuale fu quella di raffigurare la zona C, cioè quella parte di Cisgiordania che restava sotto il controllo israeliano, ma da cui Israele si impegnava a effettuare ulteriori ritiri, in tempi e modi da stabilire in una fase successiva. Come abbiamo già visto, chi disegnò la cartina, anziché affrontare e risolvere questa difficoltà, la ignorò omettendo di contrassegnare la zona C. Da quando l’accordo è stato firmato, anche altri cartografi hanno cercato di tradurlo in figure. I risultati dei loro sforzi fanno capire in quanti modi diversi si possa interpretare la realtà che sta dietro Oslo II, e quanto possa essere difficile il compito di modulare il simbolismo politico di una cartina.

Isolotti in una scodella
Per fare un esempio, prendiamo la mappa realizzata dall’Applied research institute di Gerusalemme (Arij), un istituto di ricerca palestinese che pubblica tra l’altro il Geopolitical atlas of Palestine, una storia della “colonizzazione” israeliana e dell’esproprio inflitto ai palestinesi realizzata con immagini cartografiche.

Nella carta dell’Arij (figura 2), le aree sotto controllo palestinese appaiono come isolotti che galleggiano sconsolati in una specie di scodella simile a quelle usate dai biologi per fare i brodi di coltura. La zona C, cioè quello spazio bianco che circonda gli isolotti color verde e salmone, è assente dalla legenda della cartina ed è praticamente indistinguibile da Israele. Il confine del 1967, che delimita l’area dove secondo alcuni oppositori dell’accordo di Oslo sarebbe dovuto sorgere il nuovo stato palestinese, domina l’insieme con fare accusatorio.

2. La cartina di Oslo II dell’Arij

Inoltre i cartografi dell’Arij hanno scelto di scrivere in arabo i nomi delle città palestinesi, aggiungendo poi tra parentesi – in alcuni casi – anche i nomi in ebraico o in inglese: abbiamo così al Khalil (He- bron), Ariha (Jericho), al Quds (Jerusalem). Gli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza sono segnalati dalla dicitura “area delle colonie ebraiche”. Questa cartina indica anche le cosiddette safe passage routes, cioè i corridoi di collegamento tra la Cisgiordania e Gaza, che invece mancavano in quella ufficiale (ma erano indicati in una cartina separata, annessa all’accordo).

Infine la mappa segnala i posti di blocco, uno degli aspetti militari permanenti dell’occupazione israeliana. La prima volta che ho visto questa cartina dell’Arij, ho pensato che fosse stata disegnata intenzionalmente per dimostrare che l’accordo rinchiude i palestinesi in una sorta di bantustan, simili a quelli del Sudafrica durante l’apartheid: insomma, i “cantoni” che avevano fatto infuriare Arafat. Ma poi ho parlato con uno dei responsabili dell’Arij, Khaldoun Rishmawi, che mi ha dato una spiegazione diversa. Secondo Rishmawi, la cartina era stata realizzata in una fase di ottimismo, e i suoi autori consideravano l’accordo potenzialmente positivo per i palestinesi. Ma allora la mappa avrebbe dovuto raffigurare un progresso verso la cosiddetta soluzione a due stati (Israele e Palestina), con la zona C associata a quelle A e B, e non a Israele. Invece, esattamente come per la cartina ufficiale di Oslo II, il messaggio visivo ha tradito i veri intenti dei suoi autori.

Un’altra carta geografica che associa la zona C a Israele (anche se con implicazioni molto diverse) è quella commissionata dal ministero degli esteri israeliano e realizzata dalla Koret communications (figura 3). L’amministratore delegato della società, Reuven Koret, è anche il responsabile di Israel insider, un sito vicino ai coloni che ha più volte preso di mira Ariel Sharon per il suo progetto di ritiro da Gaza. Nell’elenco di temi caldi che compare online, “processo di pace” è scritto tra virgolette: una scelta che rispecchia la ben nota posizione della destra israeliana, secondo cui il processo di Oslo è stato una presa in giro perché la pace non è possibile.

3. La cartina di Oslo II dalla Koret

La carta geografica realizzata dalla Koret segnala chiaramente la zona C, quindi riconosce che l’accordo le ha assegnato un nuovo status giuridico. Ma il colore usato per contrassegnare questo territorio è una sfumatura (per quanto diversa) di azzurro, il che lo associa inequivocabilmente a Israele. Il giallo e il marrone usati per indicare le zone A e B (leggermente più
grandi in questa cartina, che illustra un ulteriore ritiro israeliano successivo alla prima fase
di Oslo II) associano implicita
mente queste aree alla Giordania, situata a est. Si tratta di una sottile allusione alla cosiddetta “opzione giordana”, cioè all’idea che i palestinesi non hanno bisogno di un nuovo stato perché ne hanno già uno sull’altra sponda del fiume Giordano. Quest’idea, spesso accompagnata dalla richiesta di trasferire i palestinesi fuori dallo stato ebraico, è respinta dalla maggioranza degli ebrei israeliani che la considerano un vicolo cieco, destinato a perpetuare il conflitto. Inoltre la cartina della Koret inquadra tutta la Cisgiordania ma solo una piccola parte di Israele, dando l’impressione che le aree sotto controllo palestinese siano relativamente estese. Infine il titolo, così come appare sul sito del ministero degli esteri, è “Giudea e Samaria”, cioè i nomi biblici dei territori interessati: anche questo dato ha la sua rilevanza politica, perché afferma un “diritto storico” degli ebrei su quei territori. In conclusione, tutte e tre le cartine (quella ufficiale, quella dell’Arij e quella della Koret) associano la zona C a Israele, facendo apparire Oslo II come una sconfitta per i palestinesi.

Sarebbe invece possibile realizzare una cartina dell’accordo ad interim fondata su una valutazione positiva per i palestinesi dell’esito di Oslo? Come si può dire in una mappa che, anche se per il momento la zona C resta in mano israeliana, in prospettiva gran parte di quel territorio sarà assegnato al futuro stato palestinese?

Prendendo come punto di partenza una carta geografica pubblicata nel libro di memorie The missing peace del mediatore statunitense Dennis Ross, di recente ho realizzato la rappresentazione grafica alternativa di Oslo II in collaborazione con un grafico professionista, Jonathan Corum della 13pt (figura 4).

4. La cartina di Oslo II di Motro e Corum

Nella nostra mappa abbiamo scelto colori che associano chiaramente la zona C alle zone A e B controllate dai palestinesi. Abbiamo indicato le città della Cisgiordania con i relativi nomi in arabo, e abbiamo segnalato anche le safe passage routes che collegano la striscia di Gaza con la Cisgiordania. Naturalmente, la nostra rappresentazione grafica avrebbe potuto rassicurare (forse falsamente) i sostenitori della soluzione a due stati e gettare nel terrore gli ebrei israeliani residenti nella zona C e chi li appoggia. Ma tra queste due posizioni estreme ci sarebbe stato posto per un’interpretazione moderata degli accordi di Oslo, che accreditasse l’impegno a definire la sorte della zona C.

Una cartina con queste caratteristiche esiste e compare – fatto inatteso ma significativo – in The process[,](http://The process,) il libro di memorie di Uri Savir, capo della delegazione israeliana alle trattative (figura 5).

5. La cartina di Oslo II di Uri Savir

Qui la zona C – quella con lo sfondo tratteggiato – è inequivocabilmente raffigurata come distinta da Israele (sfondo bianco) e dalle aree assoggettate al parziale o totale controllo palestinese (sfondo in diverse sfumature di grigio). Ma com’è possibile che un uomo cha ha incluso nel suo libro una mappa così ricca di sfumature, ha approvato nella sua veste ufficiale di negoziatore la famigerata “cartina-groviera”? Ho chiesto all’ambasciatore Savir di spiegare perché le due carte siano così diverse, e in particolare perché quella nel suo libro segnala specificamente la zona C, mentre quella ufficiale no. Ma Savir non ha ammesso alcuna differenza significativa tra le due.

Dei tanti piani di pace proposti dopo il naufragio del processo di Oslo nel 2001, uno solo – la cosiddetta iniziativa di Ginevra del dicembre 2003 – comprende cartine che illustrano graficamente la possibile soluzione definitiva del conflitto. All’epoca di questo accordo informale, promosso da un gruppo di personalità israeliane e palestinesi, io ero ormai diventata avvocato, avevo pubblicato una guida per immagini alla legislazione statunitense in materia di imposte sui redditi, e tenevo un seminario a Yale su comunicazione visiva e diritto, un campo di studi nuovo e promettente. Quando ho visto le cartine annesse all’intesa di Ginevra, sono rimasta di stucco.

Un’accozzaglia confusa
Il nodo cruciale del compromesso territoriale raggiunto a Ginevra è un piano che prevede l’esistenza di due stati, prendendo come punto di partenza i confini del 1967. Questi vengono modificati secondo un criterio di equivalenza: Israele otterrebbe cioè parte dei Territori occupati, e in cambio i palestinesi avrebbero la sovranità su aree di pari estensione situate sul versante israeliano del confine. Inoltre il piano prevede un corridoio per collegare la Cisgiordania alla Striscia di Gaza.

Guardando le cartine di Ginevra dovrebbe apparire subito evidente che si tratta di una rappresentazione grafica positiva della soluzione a due stati. Invece dai materiali online, dagli opuscoli stampati e dai “pacchetti stampa” relativi all’iniziativa esce fuori un’accozzaglia di versioni diverse, piena di chartjunk, di colori e diciture del tutto arbitrari, di incoerenze e omissioni (figura 6). Le cartine ignorano i principi più elementari della comunicazione visiva e offuscano l’eleganza semplice e rassicurante della soluzione proposta a Ginevra.

6. La cartina dell’iniziativa di Ginevra

Per esempio in diverse mappe l’elemento dominante sul piano visivo sono gli insignificanti riquadri gialli contenenti il titolo della cartina e i nomi delle città. Sono poi evidenziati i confini del 1967 e i contorni delle aree destinate a essere scambiate tra Israele e il futuro stato palestinese: sono senz’altro elementi importanti, ma le spesse linee colorate che li segnalano impediscono di farsi un’idea esatta di chi cede cosa in cambio di cosa.

Inoltre le aree annesse alla Palestina in queste cartine sono contrassegnate in rosso, colore che connota pericolo, aggressione e sangue, anche considerato che in ebraico le parole “rosso” e “sangue” hanno la stessa radice.

Anche i nomi dei due diversi paesi sono relativamente evidenziati, il che è positivo: “Palestina” non è più una parolaccia, e i promotori dell’iniziativa di Ginevra hanno fatto bene ad affermarlo. Ma ripetere il nome due volte è un errore. Fa sentire minacciati gli israeliani, perché sulla cartina vedono la piccola e vulnerabile Israele accerchiata da ben due “Palestine”; e spaventa anche i palestinesi, perché evidenzia la mancanza di collegamento tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

L’errore più grave delle cartine ufficiali di Ginevra è proprio questo, che omettono il corridoio tra le due parti della Palestina. È vero che il tracciato e la forma del passaggio non sono stati ancora definiti, e quindi è difficile rappresentarlo graficamente: ma ometterlo del tutto manda il messaggio sbagliato. Occorrerebbe trovare una sorta di “segnaposto” visivo che corrisponda all’espressione verbale “da definire”, usata nel testo dell’intesa di Ginevra.

Un luogo fertile e vario
Fatte tutte queste considerazioni, sono tornata dal mio amico grafico, e insieme abbiamo cercato di realizzare una cartina che rendesse giustizia allo spirito dell’iniziativa di Ginevra (figura 7). Questa volta gli ho chiesto di adottare una nuova tavolozza di colori, visto che il beige e il verde delle nostre cartine di Oslo mi ricordavano il deserto, le tute mimetiche e i carri armati. Io invece volevo cercare di proporre una visione diversa sia di Israele sia della Palestina, anche perché questa cartina non è esclusivamente a uso e consumo interno, cioè non serve solo agli israeliani e ai palestinesi.

7. L’accordo di Ginevra per Motro e Corum

Deve infatti comunicare al mondo l’idea che la Terra Santa è anche un luogo fertile, rigoglioso e molto vario, che va dalle fitte foreste del nord al deserto roccioso del sud. Così abbiamo scelto delle tonalità fresche e rilassanti, ispirate sia alla bandiera israeliana sia a quella palestinese, e per contrassegnare i territori destinati allo scambio abbiamo adottato colori che permettessero di associarli chiaramente con lo stato in cui verranno incorporati. In questo modo siamo riusciti a trasmettere anche un’altra informazione essenziale, e cioè che l’estensione delle aree situate sul versante israeliano del
confine del 1967 destinate a formare lo stato palestinese equivale a quella delle porzioni di Territorio occupato destinate a essere definitivamente annesse nello stato di Israele. Quanto al famoso corridoio, lo abbiamo contrassegnato con una sorta di “segnaposto” visivo, per ricordare che il suo tracciato e la sua forma restano da definire.

I sostenitori israeliani e palestinesi della soluzione a due stati hanno un bisogno disperato di una raffigurazione positiva che rispecchi e insieme rafforzi la loro convinzione, cioè che la pace è possibile. Se le controparti torneranno a sedersi al tavolo delle trattative, realiz- zare le cartine giuste richiederà un processo di collaborazione tra estensori del- l’accordo, cartografi e grafici. Questo processo non soltanto darebbe luogo a prodotti grafici più riusciti, ma proporrebbe anche modi nuovi per visualizzare – e quindi pensare – l’accordo stesso. Com’è noto, scrivere ci costringe a fare i conti con i limiti della nostra comprensione, mettendo in luce tutte le lacune logiche e i dettagli irrisolti, della cui ricchezza e complessità spesso prendiamo coscienza solo nel momento in cui prendiamo in mano carta e penna. Scrivere stimola inoltre la creatività e ci permette di intravedere possibilità a cui altrimenti saremmo ciechi.

Lo stesso vale per il disegno. Ecco perché vanno incoraggiati i negoziatori che scarabocchiano spontaneamente appunti e diagrammi, come facevano du- rante il processo di Oslo sia Uri Savir sia la sua controparte palestinese Abu Ala. Ma per essere davvero efficaci, le cartine ufficiali della pace – che siano realizzate per accompagnare il testo giuridico, oppure siano una traccia da usare al momento dell’attuazione degli accordi, o servano per la campagna d’informazione destinata all’opinione pubblica – devono necessariamente avvalersi di molte sensibilità diverse: politiche, tecniche e anche artistiche. Non bastano né i software (per esempio quello della Geographic information systems) né i tecnici, se privi di formazione specifica nel campo della grafica. Un negoziatore che dispone di un programma avanzato per la cartografia e di un assistente tecnico, ma è “analfabeta” sul piano della comunicazione visiva, è altrettanto inefficace di uno che usa un programma di scrittura avanzatissimo, ma scrive male.

Naturalmente, per fare la pace non basta una cartina, per quanto ben fatta. Ma è importante evitare che al lungo elenco di lacune e fallimenti che già costellano il processo di pace si aggiunga anche l’incompetenza dei grafici. Se il prossimo accordo dovesse essere corredato da cartine che ripetono gli stessi errori di quelle accluse a Oslo II e all’iniziativa di Ginevra, le chance di successo sarebbero compromesse. Se invece le nuove carte proporranno una rappresentazione visiva in cui israeliani e palestinesi si possano riconoscere, allora potranno davvero far pendere la bilancia in favore della pace.

(Traduzione di Marina Astrologo)

Questo articolo è uscito il 13 gennaio 2006 nel numero 624 di Internazionale, a pagina 26. L’originale era uscito su Legal affairs con il titolo Lessons from the swiss cheese map.

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