01 febbraio 2016 17:26

Era prevedibile che il Burundi dominasse l’agenda del vertice dell’Unione africana (Ua) che si è chiuso il 31 gennaio. È una crisi emergente che potrebbe diventare devastante. In realtà è già devastante: basta chiederlo alle centinaia di migliaia di profughi e sfollati interni, o alle famiglie delle decine di giornalisti, attivisti e sospetti simpatizzanti dell’opposizione uccisi in modo sommario, oppure ad Amnesty international, che la scorsa settimana ha pubblicato le foto satellitari di cinque possibili siti di fosse comuni. E la situazione sta peggiorando.

Diversi gruppi di opposizione hanno formato delle milizie e sono stati coinvolti in scontri a bassa intensità contro le truppe governative. La situazione potrebbe degenerare in una guerra civile o persino in una guerra regionale, se fossero vere le voci di un possibile coinvolgimento del Ruanda. In alcuni casi la violenza segue divisioni di tipo etnico: gli hutu si contrappongono ai tutsi, riecheggiando – forse in modo esagerato – i timori di un altro genocidio come quello del 1994 in Ruanda. Per l’Unione africana, dunque, quella in Burundi è una situazione che con tutta evidenza richiede un’attenzione immediata. Rappresenta però anche un’opportunità: l’organismo continentale, tanto bistrattato, può dimostrare di avere un potere reale e di essere in grado di agire in modo positivo.

Alla vigilia del vertice, questa sembrava essere la strada intrapresa dall’Ua. Episodio degno di nota, a metà dicembre il Consiglio per la pace e la sicurezza (Cps) aveva stabilito di dispiegare una forza di peacekeeping di cinquemila unità con il compito di stabilizzare la situazione e proteggere i civili. Quasi subito il presidente burundese Pierre Nkurunziza ha rifiutato questa missione, che per poter essere operativa ha bisogno del consenso del governo (in caso contrario, sarebbe un’invasione). Man mano che ci si avvicinava al vertice, nei corridoi di Addis Abeba si parlava solo di come l’Ua avrebbe fatto cambiare idea al temerario Nkurunziza.

Invece di una forza di peacekeeping, l’Ua invierà a Bujumbura un comitato per promuovere il dialogo

Nkurunziza non era presente ad Addis Abeba per il vertice, forse perché l’ultima volta che ha lasciato il suo paese ha rischiato di essere defenestrato da un colpo di stato, ma è stato rappresentato dal suo giovane ministro degli esteri, Alain Nyamwite, che si è dimostrato testardo quanto il suo capo. Anzi, Nyamite ha perorato talmente bene la causa del governo di Bujumbura che il Cps ha evitato di chiedere all’assemblea generale dell’Ua di approvare il suo piano per il dispiegamento di una forza di peacekeeping, il passo logico successivo. Questo è stato interpretato da molti osservatori come un rovesciamento rispetto alla decisione di dicembre e una significativa attenuazione delle pressioni esercitate sul governo del Burundi.

Invece di una forza di peacekeeping, l’Ua invierà adesso a Bujumbura un comitato ancora da definire in una data ancora da stabilire per promuovere il “dialogo inclusivo” e, di nuovo, far cambiare idea a Nkurunziza. Ma non sembrano intenzionati ad andarci giù pesante.

L’Ua aumenterà inoltre il numero di osservatori, da 20 a 100, anche in questo caso previa approvazione da parte di Bujumbura. Perciò, anche se la missione di peacekeeping non è del tutto morta, si può dire che questo vertice non abbia fatto nulla per renderla reale, nonostante un deterioramento della situazione in Burundi.

“Non è ciò che desideravo, ma almeno [la forza di peacekeeping] non è stata del tutto messa da parte”, ha dichiarato Marie-Luis Baricako, un’importante attivista burundese per i diritti umani, in un’intervista al Daily Maverick. Secondo Baricako, per quanto lodevole, l’enfasi posta dall’Ua sul dialogo inclusivo potrebbe essere prematura. “Sarebbe bello che il dialogo avvenisse, ma non sono sicura che siano pronti. Bisognerebbe prima porre fine alla violenza, perché non si può dialogare mentre la gente viene uccisa”.

Un ruolo per l’Uganda

In assenza di peacekeeper, l’attenzione è rivolta ancora una volta ai tentativi di mediazione portati avanti dalla Comunità dell’Africa orientale e in particolare dal presidente ugandese Yoweri Museveni.

Museveni, anche lui assente dal vertice, potrebbe non cogliere il segnale, distratto com’è dalle imminenti elezioni presidenziali in Uganda previste per il 18 febbraio. In ogni caso non è proprio un mediatore ideale. Nel 2005 Museveni ha orchestrato l’abolizione dei limiti di mandato in Uganda per avere la possibilità di farsi eleggere di nuovo, perciò di sicuro non potrà criticare più di tanto l’analogo tentativo di Nkurunziza. Oltretutto l’Uganda non è affatto una forza neutra nella regione, e il suo coinvolgimento potrebbe esacerbare tensioni regionali piuttosto che placarle.

Dopo una prima reazione forte e promettente nei confronti della presa del potere da parte di Nkurunziza nel 2015, con questo vertice l’Ua ha abbassato i toni sia nella retorica sia nella forza della sua risposta. Se il conflitto in Burundi dovesse davvero diventare una guerra civile, questa sarà un’altra occasione persa per evitarla.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato la prima volta sul Daily Maverick.

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