02 ottobre 2020 13:12

Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2018 sul numero 1283 di Internazionale.

Viviamo nell’età dell’oro dell’insonnia. Il ronzio dei lampioni la notte, i telegiornali e i programmi d’approfondimento in onda ventiquattr’ore su ventiquattro, il diluvio di contenuti sui social network hanno costruito un mondo ostile al sonno. La notte non è più chiaramente separata dal giorno. La camera da letto non è più un rifugio dall’ufficio. Le pareti materiali e psichiche che un tempo arginavano le ondate di lavoro e d’interazione sociale sono crollate. Come ha osservato Jonathan Crary, professore alla Columbia university, l’insonnia è il sintomo inevitabile di un’epoca in cui siamo incoraggiati a essere sia consumatori incessanti sia creatori incessanti.

A chi non riesce a dormire l’insonnia può sembrare l’afflizione più solitaria del mondo. Ma si calcola che solo nel Regno Unito un terzo degli adulti soffra di insonnia cronica, definita come l’avere adeguate opportunità ma inadeguate capacità di dormire per un periodo di almeno sei mesi. Gli insonni riservano diligentemente un arco di circa sette ore al riposo. Fanno il letto. Tirano le tende. Ma appena appoggiano l’orecchio sul cuscino sono improvvisamente svegli.

Molti hanno cercato aiuto: tra il 1993 e il 2007 il numero di britannici che sono andati dal medico lamentando la mancanza di sonno è quasi raddoppiato, mentre secondo i dati del servizio sanitario nazionale quello delle prescrizioni per la melatonina, l’ormone che regola il sonno, dal 2008 è aumentato di dieci volte.

Gli effetti dell’insonnia possono essere devastanti. Nel suo best seller Why we sleep (Perché dormiamo), il neuroscienziato Matthew Walker ha scritto: “La decimazione del sonno nei paesi industrializzati ha un impatto catastrofico sulla nostra salute, sulla speranza di vita, sulla sicurezza, sulla produttività e sull’educazione dei nostri figli”.

Un rapporto del 2016 dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) statunitensi sostiene che l’insonnia aumenta il rischio d’infarto, cancro e obesità. Gli insonni hanno molta più probabilità di soffrire di depressione cronica. L’insonnia è collegata a tutti i maggiori disturbi psichiatrici, compreso il rischio di suicidio (anche se si discute se la mancanza di sonno sia la causa o il sintomo). Negli Stati Uniti fino a 1,2 milioni di incidenti automobilistici all’anno sono riconducibili a guidatori stanchi.

Suggerimenti scontati
Niente di nuovo per l’insonne, che ciondolando in piedi continua a fare ricerche su Google e, preoccupato per l’obesità, le patologie cardiache, gli incidenti e la povertà, viene preso da un’ansia che peggiora ulteriormente la sua incapacità di dormire. Temendo che il suo problema sia incurabile o che nessun dottore lo prenda sul serio, spesso non cerca neanche un parere medico. Nel Regno Unito, dove i medici sono riluttanti a prescrivere sonniferi per più di una settimana o due, chi può biasimarlo? Ci sono alcune cliniche del sonno che fanno parte del sistema sanitario nazionale ed eseguono analisi per i problemi respiratori che a volte causano l’insonnia, ma le liste d’attesa sono scoraggianti. Inoltre, nel sistema sanitario britannico l’interesse per l’insonnia è marginale, tanto che un esperto l’ha definita “la Cenerentola della medicina”.

“Abbiamo pochissimi strumenti a disposizione”, ammette Clare Aitchison, che fa il medico di base a Norwich. “Con una visita di dieci minuti è impossibile insegnare ai pazienti come vincere le cattive abitudini”. Avendo poche alternative, i medici ricorrono ai consigli scontati. Fate una doccia calda prima di andare a letto. Mangiate una banana. Spegnete il cellulare. Leggete un libro. Masturbatevi. Questi suggerimenti spesso hanno qualche base logica o scientifica. Ma quando l’insonne li ha provati tutti (a volte nella stessa sera), cosa gli resta?

A Londra c’è un centro che ha ottenuto risultati significativi. Fondato nel 2009 da Hugh Selsick, uno psichiatra sudafricano, l’Insomnia clinic ha rivoluzionato il trattamento dei disturbi del sonno nel Regno Unito. Dal momento che è l’unica struttura del paese specializzata nella cura dell’insonnia, ci sono passati più di mille pazienti, con un ritmo che si è via via intensificato raggiungendo i 120 nuovi casi al mese. Secondo i dati del centro, l’80 per cento dei pazienti riscontra notevoli miglioramenti e quasi la metà sostiene di essere completamente guarita. Il successo ha garantito alla struttura una reputazione invidiabile e una lista d’attesa all’altezza della sua fama: per un consulto si può aspettare anche due anni.

Alla base del metodo Selsick c’è un’affermazione rivoluzionaria che ha portato a un nuovo approccio terapeutico, molto diverso dalle storie che, in mancanza di una soluzione medica, tutti gli insonni conoscono bene: mentre per decenni l’insonnia è stata curata come il sintomo di un altro problema (se e quando è stata curata), Selsick sostiene che non sia semplicemente un sintomo, ma un vero e proprio disturbo. La sua rimane un’opinione non ortodossa, ma per i pazienti l’approccio non si limita a correggere un errore di classificazione: offre una soluzione che cambia la vita, una via di uscita dalla disperazione, un modo per riuscire a dormire.

La cosa peggiore del mondo
Io sono arrivato a odiare la mia camera da letto. Quello che dovrebbe essere un luogo di riposo e, in un mese fortunato, di bizzarre zuffe romantiche, è per me un campo di battaglia psicologico. Dai miei diciott’ anni, prendere sonno è diventato un processo che s’interrompe sempre più facilmente. Gli scricchiolii e i cigolii di assestamento della casa bastano a strappare il mio cervello affaticato dalla sua lenta discesa. Il rumore di un camion o di una volpe in amore possono farmi agitare fino alla tre del mattino, l’ora in cui, come dice Ray Bradbury, noi insonni osserviamo con sguardo cupo “la Luna che rotola, con la sua faccia idiota”.

Nella luce tormentosa della sveglia le emozioni si acuiscono. Il minimo movimento, sbuffo o sussurro della persona che mi dorme accanto bastano a scatenare un’autentica furia, mentre vengo di nuovo catapultato in uno stato di veglia forzata. È questo il paradosso esasperante dell’insonne: più cerchi di dormire, meno ci riesci. Perciò non posso fare altro che starmene sdraiato, passando dalla furia allo sgomento ed elencando i vari modi in cui la giornata successiva sarà rovinata.

È impossibile spiegare a chi dorme bene cosa significa non dormire. Eppure scrittori e artisti ci hanno provato. “La notte è sempre un gigante”, scriveva Vladimir Nabokov a proposito del presentimento di pericolo che provava entrando nella sua camera da letto (un personaggio insonne di Nabokov desiderava avere un terzo fianco dopo aver provato, senza riuscirci, ad addormentarsi sui due che aveva). Chuck Palahniuk, il cui romanzo Fight Club è stato ispirato dall’insonnia, doveva immaginare di cominciare un combattimento e perderlo per prendere sonno. Francis Scott Fitzgerald, che non era certo uno scrittore incline all’iperbole, definiva l’insonnia con cupo infantilismo come “la cosa peggiore del mondo”.

Negli anni ho messo a punto rituali e sortilegi: deposito solennemente il telefono in un’altra stanza, faccio una doccia ustionante, bevo una tisana a base di banana.

Quando il terrore di non dormire si accumula per settimane e mesi, si consolidano comportamenti ossessivi e quasi superstiziosi. Vincent van Gogh versava un liquido simile alla trementina sul materasso, un procedimento che doveva favorire la magia del sonno. W.C. Fields sosteneva di potersi addormentare solo con il rumore della pioggia, e la sua devota amante Carlotta Monti dal giardino spruzzava acqua con il tubo per innaffiare contro la finestra della camera da letto finché lui prendeva sonno (oggi esistono diverse applicazioni che offrono suoni rilassanti dello stesso genere).

Queste stranezze forse hanno permesso al resto del mondo di considerare l’insonnia un’afflizione di poco conto. Così, oltre a sentirsi deriso, l’insonne arriva a sviluppare un senso di vergogna. Dormire è la cosa più naturale del mondo; non riuscirci ti rende in un certo senso innaturale. Perciò è stato con le occhiaie e un senso di angoscia che mi sono infilato nel portone del Royal London hospital for integrated medicine di Great ormon street, a Londra, per conoscere il grande maestro degli insonni.

Hugh Selsick non può esserne completamente certo, ma pensa di aver conosciuto più insonni di chiunque altro nel Regno Unito. Eppure, quando entra nella sala d’aspetto della sua clinica del sonno, non sa dire chi delle persone in attesa sia lì per lui. La maggior parte degli insonni di lungo periodo non mostra nessuno dei segnali rivelatori della stanchezza. È una sofferenza privata, nascosta.

Selsick attribuisce una straordinaria importanza al primo incontro con un paziente. Sa che a volte le persone che si rivolgono a lui soffrono d’insonnia da decenni, e hanno consultato vari medici di famiglia ricevendo solo il genere di consigli che si potrebbero dare a un bambino nervoso: prima di andare a letto fai un bagno caldo o bevi un bicchiere di latte. Per questo, quando si siede di fronte al paziente, il primo obiettivo di Selsick è semplicemente fargli capire che qualcuno vuole prenderlo sul serio.

Legame di fiducia
“Per anni nessuno li ha capiti”, mi dice nel suo piccolo studio. “Poi a un tratto qualcuno gli dice: ‘Sì, mi rendo conto che è un problema e, sì, possiamo curarlo’”. Alcuni pazienti scoppiano a piangere. Altri si prendono la testa tra le mani, sconvolti e sollevati. A prescindere dalla loro reazione, Selsick, che parla con garbo, ha gli occhi gentili ed è pelato come una ghianda, spiega che in quel momento si stabilisce un legame di fiducia più forte di qualunque altro lui abbia mai sperimentato nella sua carriera di psichiatra.

Nel nostro primo incontro ho in parte sentito questa intimità emotiva. Per la vergogna, o il timore che lui pensasse che stavo cercando di saltare la lista d’attesa, non ho accennato ai miei problemi di sonno. I suoi modi gentili e il suo chiaro riconoscimento dell’orrore pervasivo dell’insonnia sono stati sia consolanti sia elettrizzanti.

Ma la fama di questa clinica del sonno non si basa solo sulle buone maniere. Selsick ha messo a punto un programma di cinque settimane che unisce la terapia cognitivo comportamentale – usata per spezzare l’associazione negativa con la camera da letto e con l’intera faccenda del prendere sonno – con quello che lui definisce “addestramento all’efficienza del sonno”, cioè una riduzione calibrata della quantità di tempo che il paziente trascorre a letto.

Oggi Selsick e un altro consulente gestiscono la struttura con il sostegno di un medico di base un giorno alla settimana e di uno specialista in psichiatria aiutato da un tirocinante. I pazienti vengono da tutto il paese e circa ottanta di loro frequentano i corsi settimanali. “Continuiamo a espanderci, ma fatichiamo a soddisfare la domanda”, spiega Selsick.

Come mai un istituto di Londra riesce a curare con successo una malattia che la medicina non è riuscita ad affrontare adeguatamente? La risposta sembra radicata nella convinzione di Selsick che l’insonnia non sia il sintomo di un altro disturbo più importante. Per decenni i dottori hanno trattato il disturbo primario – diabete, patologie cardiovascolari, problemi respiratori – aspettandosi che risolverlo avrebbe aiutato il paziente a dormire. Ma questo succedeva raramente perché, come dice uno studio, l’insonnia è sostenuta da “comportamenti, cognizioni e associazioni che i pazienti adottano nel tentativo di superarla ma che si rivelano controproducenti”.

Selsick è convinto che solo affrontando l’insonnia come un disturbo psichiatrico, con livelli di gravità che vanno da leggero a cronico, il servizio sanitario possa sviluppare e prescrivere trattamenti appropriati. È una visione nuova, motivata non solo dalla curiosità scientifica ma anche dall’esperienza personale.

Hugh Selsick diventò insonne nel 1993, quando aveva 19 anni e si trovava in un kibbutz nel deserto, in Israele. Non era solo il caldo a provocare la mancanza di sonno, era anche la routine costruita intorno al caldo. Con temperature che raggiungono i 40 gradi, gli abitanti del deserto in genere dormono dalle 11 di sera alle 3 del mattino, poi si mettono a lavorare e continuano finché è abbastanza fresco. All’ora di pranzo, quando il caldo è al culmine, fanno un sonnellino. Era un’abitudine a cui la mente di Selsick si opponeva: il pomeriggio restava a letto sveglio, sfinito ma vigile.

Quando tornò in Sudafrica per cominciare il primo anno di medicina all’università di Johannesburg, l’insonnia si aggravò. “È quasi impossibile descrivere com’è a qualcuno che non l’ha mai avuta”, mi dice. Un giorno nel campus vide un annuncio in cui si cercavano volontari per uno studio sul sonno. Selsick si presentò con la speranza di capire cosa gli stava succedendo.

Lo studio puntava ad accertare l’eventuale effetto dell’apporto calorico sulla capacità delle persone di addormentarsi. Ogni esperimento durava quattro giorni, durante i quali Selsick e gli altri volontari trascorrevano la notte nella clinica del sonno con la testa attaccata a un monitor e un sensore inserito nel retto per controllare la temperatura corporea. Dovevano seguire una dieta particolare: una settimana digiunavano per ventiquattr’ore, e quella successiva triplicavano il loro apporto calorico abituale. Poi venivano monitorati per vedere l’effetto dell’alimentazione sul sonno. “Risultò che non faceva nessuna differenza”, ricorda.

Scarso interesse
Ispirato dal professore che conduceva lo studio, Selsick cominciò un dottorato in fisiologia e si mise a studiare le funzioni del sonno Rem (una fase che si verifica sporadicamente nel corso della notte, caratterizzata dal movimento oculare rapido); poi svolse ricerche sull’impatto del riscaldamento sulla qualità del sonno. La temperatura ideale per dormire è più bassa di quanto potreste immaginare: 18 gradi. È uno dei motivi per cui l’insonnia ha un’incidenza molto maggiore nelle case di riposo, dove il riscaldamento attivo giorno e notte impedisce al corpo umano di raffreddarsi per prepararsi al sonno.

All’epoca affidarsi alla psicoterapia per curare l’insonnia non era comune. Secondo Selsick i terapeuti hanno cominciato a seguire corsi di formazione per applicare i risultati delle ricerche al trattamento dell’insonnia solo nel 2005.

Alla fine degli anni novanta, quando arrivò a Londra per specializzarsi al Royal college of psychiatrists, Selsick non soffriva più d’insonnia. Eppure rimase stupito nel constatare quanto poco interesse questo disturbo suscitasse negli ambienti della psichiatria. “Prova a chiedere a un paziente con un problema psichiatrico cosa lo preoccupa”, dice. “Il sonno è quasi sempre al primo posto”. Selsick avviò una mailing list per tutti gli psichiatri interessati al sonno e organizzò una conferenza in cui i partecipanti poterono condividere le loro scoperte. Il gruppo attirò l’attenzione della supervisora di Selsick, Charlotte Feinmann, una psichiatra che lavorava come consulente al Royal London hospital. Feinmann riconobbe il nome del suo specializzando e gli mandò un messaggio chiedendogli se era interessato a fondare un centro per il sonno dentro l’ospedale.

“In quel periodo nessuno curava l’insonnia”, ricorda Selsick. “Le unità di salute mentale non accettavano pazienti che ne erano affetti; i centri sui disturbi del sonno non la trattavano, anche perché erano gestiti da specialisti dell’apparato respiratorio interessati alle apnee notturne, che non avevano le competenze necessarie”. Un paziente che non soffriva di apnea notturna veniva “sballottato qua e là” dice Feinmann. I medici erano consapevoli del problema, spiega Selsick, ma sapevano che se avessero accettato di curare l’insonnia sarebbero stati inondati di richieste.

Il gioco diventò un rituale e si convinse che era l’unico modo per addormentarsi

Selsick accettò la proposta di Feinmann, e nel novembre del 2009 i primi due pazienti entrarono nella struttura. Cominciò con un pomeriggio alla settimana. “Non avevo idea di cosa stessi facendo”, ricorda. In effetti, nei primi mesi le visite di Selsick offrivano poco più dei soliti consigli per un buon riposo notturno, per esempio limitare il consumo di caffè (“non efficace”), e una generica modifica al dosaggio dei medicinali che il paziente stava già assumendo (“non molto efficace”).

Poi, qualche mese dopo, Selsick cominciò a esplorare la terapia cognitivo comportamentale. Per chi soffre di insonnia, la camera da letto è talmente associata all’incapacità di addormentarsi che la semplice azione di entrarci lo risveglia, proprio come entrare nello studio di un dentista rende immediatamente ansiosi. La terapia cognitivo comportamentale, che all’epoca stava cominciando a essere usata in Nordamerica per trattare l’insonnia, serve a cambiare questa associazione automatica per sostituirla con camera da letto e sonno. “I nostri risultati migliorarono enormemente”, ricorda il medico.

Non tutti credevano nel nuovo programma. Il Royal London hospital in passato era noto come Royal London homeopathic hospital, un discusso centro che offriva terapie alternative. Il farmacologo David Colquhoun una volta ha definito questo ospedale “un grande imbarazzo nazionale”. Secondo Selsick questa reputazione ha spinto alcuni medici a non mandargli i loro pazienti insonni. “Quando spieghiamo che il nostro è un servizio di tipo psichiatrico che pratica una medicina basata su prove scientifiche, queste riserve di solito svaniscono”, spiega.

Chi riesce a superare il portone viene sottoposto a una valutazione iniziale per capire cosa, tra una miriade di possibilità, gli provochi l’insonnia. Selsick controlla l’eventuale presenza di disturbi del sonno, come la cosiddetta sindrome della gamba senza riposo, che colpisce dal 2 al 10 per cento delle persone, le apnee notturne o altri problemi respiratori. Ma questo è solo il primo passo. Una volta escluse queste cause, Selsick fa al paziente un lungo elenco di domande, sia pratiche (“A che ora va a letto?”, “Quanto tempo ci mette ad addormentarsi?”) sia esplorative (“Cosa stava succedendo nella sua vita quando ha cominciato a soffrire di insonnia?”).

Idealmente, le risposte del paziente tracciano uno schema che può portare alla diagnosi. A volte si tratta di narcolessia, epilessia notturna o sonnambulismo. In altri casi si tratta semplicemente di insonnia psichiatrica.

Il mito delle otto ore
Quando aveva 13 anni, Zehavah Handler prese una penna e scarabocchiò un punto sulla parete della sua camera. Sdraiata sul letto, riusciva appena a distinguere il segno alla luce biancastra della lampada. E così, mentre il resto della famiglia andava a letto, lei s’imponeva di fissare il segno il più a lungo possibile senza battere le palpebre. Il gioco diventò un rituale e alla fine lei si convinse che quello era l’unico modo per prendere sonno, anche se spesso faceva le quattro del mattino prima di addormentarsi.

Da adulta Handler, che oggi ha 40 anni e quattro figli, continuava a soffrire d’insonnia. Si alzava alle sette per accompagnare i figli a scuola e poi si sdraiava sul tappeto della camera da letto, con il cuore che palpitava per la stanchezza, e fissava il soffitto fino a metà pomeriggio, quando arrivava il momento di andare a riprendere i figli. Dopo la cena e il bagno dei bambini, se ne andava a letto, dove restava sdraiata per dodici ore riuscendo a dormire solo un’oretta prima che spuntasse l’alba e ricominciasse la sua spossante routine.

Quando ha cominciato ad avvertire irritabilità e perdita di memoria, Handler è andata dal medico di famiglia, e dopo un’attesa di diciotto mesi è entrata nello studio di Selsick. “Era la prima volta che incontravo un professionista veramente comprensivo e disposto a riconoscere il problema”. Handler è stata ricoverata nella struttura per monitorare l’eventuale presenza di apnee notturne. Ha passato la prima notte in un nido di fili, come un androide che ricarica le batterie, ed è rimasta sveglia chiedendosi se tutte quelle macchine avrebbero capito che stava solo fingendo di dormire.

Ma i risultati erano chiari: non aveva problemi respiratori né spasmi muscolari. Selsick ha concluso che Handler era una dei tanti pazienti per cui l’insonnia non è un sintomo di qualche altro disturbo, ma il disturbo.

Nel maggio del 2016 Handler è stata inserita nel corso di cinque settimane insieme ad altri nove pazienti ansiosi. Gli incontri si tenevano in una stanzetta nel cuore dell’ospedale. Handler ricorda che nessuno parlava e pochi cercavano il contatto visivo, paralizzati dalla vergogna segreta dell’insonne. “Eravamo tutti molto a disagio”, ricorda. “Ci chiedevamo come avrebbe funzionato e quanto avremmo dovuto rivelare di noi stessi”.

“La prima cosa che faccio”, mi dice Selsick, “è sfatare il mito che ci sia un certo numero di ore di sonno necessarie. C’è questa convinzione che si debba dormire otto ore a notte. Non è vero”. Proprio come cambiano le misure delle scarpe, dice, cambiano le ore di sonno a seconda dell’individuo. “A certe persone bastano sei ore e mezzo, ad altre ne servono nove e mezzo. E questo non significa che uno sia meno normale di un altro”.

Per capire di quanto sonno hanno bisogno, a tutti i pazienti del corso viene chiesto di tenere un diario, registrando a che ora vanno a letto, a che ora si alzano, quanto tempo ci mettono ad addormentarsi e quante volte si sono svegliati durante la notte. Poi Selsick demolisce la loro idea che debbano andare a letto sempre a una certa ora. In genere gli insonni tendono ad andare a letto prima o a rimanerci più a lungo per aumentare la possibilità di dormire. Sembra un ragionamento logico – se non dormo abbastanza, passo più tempo a letto – ma l’ansia finisce invariabilmente con l’aggravare il problema.

Invece i pazienti di Selsick devono fissare un orario rigido per la sveglia. “Gli diciamo di alzarsi sempre alla stessa ora ogni giorno, indipendentemente da quanto hanno dormito, da che ora sono andati a letto e da quello che devono fare quel giorno”. Non devono assolutamente indugiare a letto o fare dei pisolini (la gomma da masticare, aggiunge Selsick, aiuta a non appisolarsi). La teoria è che se ti alzi alla stessa ora ogni mattina cominci ad avere sonno alla stessa ora ogni sera, e con il passare delle settimane diventerà una cosa naturale. “Riduciamo il tempo che passano a letto in modo che il sonno diventi più profondo e compatto”, spiega Selsick.

Un paziente potrebbe cominciare con l’obiettivo di sei ore di sonno: se deve alzarsi alle 7 per andare al lavoro, significa che ha il divieto assoluto di mettere piede in camera da letto prima dell’una di notte.

Quando un paziente si accorge di dormire il 90 per cento del tempo che passa a letto può anticipare l’ora in cui va a dormire di un quarto d’ora alla volta. Questa tecnica comportamentale è chiamata efficienza del sonno, e malgrado la sua disarmante semplicità i pazienti riconoscono risultati stupefacenti. “È stata molto dura”, ha commentato Laurell Turner, una studente di medicina che ha completato il programma nel 2016. “Alla fine del corso ero esausta. Ma nonostante il mio scetticismo, l’effetto è stato immediato.”

Quando gli insonni vanno a letto, spesso temono di dover restare lì sdraiati, e questo li rende ancora più frustrati e irritati. Il semplice fatto di andare a dormire li tiene svegli. La camera da letto diventa l’elemento scatenante della veglia e perfino della paura. Per combattere il fenomeno, Selsick raccomanda ai pazienti di lasciare la stanza dopo un quarto d’ora se non riescono ad addormentarsi. A parte il sesso e il sonno, in camera da letto è vietata ogni attività. I pazienti devono perfino cambiarsi in un’altra stanza.

“Prima andavo a dormire nel pomeriggio e restavo in camera per dodici ore”, racconta Handler. “Facevo lì tutte le mie telefonate, lavoravo al computer, mangiavo e guardavo la tv a letto. Ora non più: saluto la mia stanza alle 7.20 del mattino e non la rivedo fino all’una e mezza di notte, quando vado a dormire”.

Questa tecnica può sembrare illogica: le prime notti, quando i pazienti si trascinano avanti e indietro tra soggiorno e camera da letto ogni quindici minuti, spesso dormono peggio. “È incredibilmente difficile”, dice Handler. Ma dopo circa cinque settimane, l’associazione negativa tra camera da letto e mancanza di sonno è spezzata e sostituita da connessioni nuove e positive. Selsick sostiene che usando queste tecniche insieme alla riduzione di stimolanti come la caffeina, otto pazienti su dieci hanno dei miglioramenti, e la metà va avanti fino alla “remissione completa”.

Una pillola da ingoiare
Gli studi confermano che la terapia cognitivo comportamentale a lungo termine è il trattamento più efficace per l’insonnia. Ma perché sia efficace, occorre che il paziente instauri una routine e la mantenga. Per i pazienti che cambiano regolarmente fuso orario, che dormono spesso in albergo o non possono crearsi un rituale notturno per motivi di lavoro, il piano di Selsick è un obiettivo impossibile. Questi pazienti non hanno bisogno di un orario a cui attenersi, ma di una pillola da ingoiare.

Può sorprendere che a dirlo sia uno strenuo sostenitore della terapia cognitivo comportamentale per la cura dell’insonnia. Eppure Selsick è convinto che nel Regno Unito i sonniferi andrebbero prescritti molto più spesso. “Il sistema sanitario britannico è incredibilmente conservatore in materia di farmaci per il sonno”, commenta. Buona parte delle preoccupazioni si concentrano sulla dipendenza da benzodiazepine. Secondo il neuroscienziato Matthiew Walker, i sonniferi non garantiscono un “sonno naturale”, possono “nuocere alla salute” e “accrescere il rischio di malattie potenzialmente mortali”.

C’è qualche ricaduta, ammette Handler, di solito provocata da un cambio di routine

“Questi farmaci, come qualunque altro, non sono privi di rischi”, dice Selsick. “Ma anche rinunciare a curare l’insonnia comporta dei rischi”. Selsick ha conosciuto pazienti che a causa dell’insonnia hanno dovuto lasciare il lavoro e rinunciare alla carriera. “Ho avuto pazienti che avevano distrutto i loro matrimoni, che avevano perso la custodia dei figli perché erano così stanchi che non riuscivano a prendersene cura adeguatamente”. Per questo la politica di non prescrivere farmaci per il sonno, afferma, è un disservizio per i pazienti. “Certo, prima di ricorrere ai farmaci bisognerebbe tentare la terapia cognitivo comportamentale, ma in molti luoghi non è prevista, e poi non ha effetto su tutti i pazienti.”

Quattromila ricette
Ogni epidemia garantisce opportunità commerciali. Nel 2006 l’azienda produttrice del sonnifero Ambien, che non contiene benzodiazepine, calcolò che il farmaco era stato assunto 12 miliardi di volte in tutto il mondo e aveva prodotto solo negli Stati Uniti due miliardi di dollari di ricavi all’anno. Le compagnie farmaceutiche che sperano di emularne il successo sono impegnate in una gara per mettere a punto un nuovo sonnifero che non abbia effetti collaterali. Nel 1998 la scoperta dell’oressina, un ormone che agisce sostanzialmente come una sveglia per il cervello, aveva trasformato la lunga marcia per sviluppare un nuovo tipo di sonnifero in una vera e propria corsa.

Da quindici anni Jean-Paul Clozel – un cardiologo diventato farmacologo che nel 1997 fondò insieme alla moglie Martine l’azienda biotecnologica svizzera Actelion – lavora a quello che sostiene essere un sonnifero privo di controindicazioni: “La maggior parte dei sonniferi sono benzodiazepine e inducono quello che sembra sonno ma in realtà è più vicino a una sedazione anestetica” (le benzodiazepine sono usate spesso dagli anestesisti). La pillola di Clozel, che lui spera di lanciare sul mercato nel 2020, e che va sotto il nome generico di Nemorexant, agisce in modo diverso, limitando la produzione di oressina, l’ormone che tiene svegli gli insonni o li fa svegliare alla minima occasione.

Il Nemorexant non è il primo sonnifero a prendere di mira l’oressina. Dall’agosto del 2014, oltre un decennio dopo l’inizio degli studi per sviluppare il farmaco, i medici statunitensi possono prescrivere il Belsomra, conosciuto anche come Suvorexant, che agisce sullo stesso ormone. A un mese dal suo lancio sul mercato, si registrava una media di quattromila ricette alla settimana. Ma il farmaco non è privo di rischi. Un rapporto della Food and drug administration sulla sicurezza del Belsomra, che ha una stretta relazione con il farmaco di Clozel, riferiva di una paziente che “si svegliava più volte sentendosi incapace di muovere gambe e braccia e senza riuscire a parlare”.

Ciò nonostante, in un paese che sembra lontano anni luce dall’avviare programmi nazionali di terapia cognitivo comportamentale per curare l’insonnia, Selsick è favorevole al Nemorexant. “Dal momento che agisce seguendo un percorso completamente diverso da quello di altri ipnotici, sarebbe bello averlo per i pazienti che non rispondono ai trattamenti standard”.

Nel frattempo il Regno Unito rimane poco preparato e, a quanto sembra, poco disposto ad affrontare la crescente epidemia di insonnia. Noi vittime di questa Cenerentola della medicina, dolorosamente ignorata, ci aggrappiamo a qualunque cosa sostenga di essere una cura e restiamo impantanati nelle pratiche popolari, e in consigli coloriti ma contraddittori. Nessun sonnifero può essere usato a lungo, e a parte la struttura di Selsick solo una manciata di centri privati offrono la terapia cognitivo comportamentale per trattare l’insonnia.

Il progetto di aprire un centro mirato presso il Guy’s hospital di Londra è stato accantonato per il timore che le richieste fossero eccessive. “Temevano che la domanda sarebbe stata così alta da non riuscire a far fronte alle liste d’attesa, e questo avrebbe danneggiato economicamente l’ospedale”, spiega Selsick. La conseguenza perversa è che più cresce la domanda di trattamenti per l’insonnia, più diminuisce la probabilità che sia soddisfatta.

A maggio, per allentare la pressione sul suo centro sommerso di richieste, Selsick ha autorizzato il primo programma di formazione per medici di famiglia, in modo che siano loro a gestire, nei loro ambulatori locali, sessioni di terapia cognitivo comportamentale simili a quelle che si tengono nella sua struttura, almeno per i casi meno gravi. Selsick vorrebbe organizzare tre corsi, aperti anche a infermieri, psicologi, terapisti occupazionali ed esperti di igiene mentale, due volte l’anno, e accrescere così la capacità del sistema sanitario di affrontare il problema dell’insonnia su scala nazionale.

Quella di Selsick è l’unica struttura sanitaria a vedere un costante flusso di pazienti. E la costanza, dice il medico, è la chiave di tutto. “La terapia non è niente di trascendentale”, dice. “Davvero. Il nostro lavoro principale, come terapeuti, non è tanto dire ai pazienti cosa devono fare – per questo basterebbe distribuire un opuscolo – ma convincerli a tenere duro abbastanza a lungo perché possa funzionare”.

In sintonia con l’universo
Per i pazienti che completano con successo il programma di Selsick, riuscire a riposare bene significa trasformare radicalmente la propria vita. Ricominciare a dormire significa sentirsi di nuovo in sintonia con l’universo e con i suoi impercettibili ritmi. “Sono più contenta”, mi ha detto Handler della sua nuova vita post-insonnia. “I miei rapporti interpersonali sono migliorati. Sono più paziente. Non vivo più in una sorta di nebbia perenne. Sono disponibile”.

C’è qualche ricaduta, ammette Hand-ler, di solito provocata da un cambiamento di routine – una vacanza, Natale – ma mettendo la sveglia all’ora stabilita, lasciando la camera da letto dopo un quarto d’ora se non riesce a prendere sonno e mettendo in atto tutti i rituali che ha imparato alla clinica del sonno, basta qualche notte per ripristinare il ritmo.

Gli effetti sulla sua vita sono stati così evidenti che Handler ha deciso di chiudere la sua agenzia turistica e, con l’appoggio di Selsick, si è formata per diventare una consulente del sonno. Aver imparato a dormire di nuovo l’ha talmente cambiata che vuole dedicare la sua vita ad aiutare gli altri a superare lo stesso problema. Prevede di aprire il suo centro contro l’insonnia l’anno prossimo.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Da sapere

Regolarità Andate a letto e svegliatevi sempre alla stessa ora, anche se siete molto stanchi oppure è il fine settimana.

Temperatura L’ambiente non deve essere troppo caldo. Per favorire il sonno, la vostra temperatura corporea deve diminuire di circa 1,2 gradi. Per questo è più facile addormentarsi in una stanza troppo fredda piuttosto che in una troppo calda. La temperatura ideale per dormire è di 18,5 gradi. Se avete freddo indossate un paio di calzini, ma non alzate il termostato.

Luce Abbassate le luci prima di coricarvi. Nell’ora precedente spegnete più lampade possibili, in modo da non interferire con la naturale produzione di melatonina, l’ormone del sonno che si produce di sera. In particolare, i tablet e gli smartphone generano molta luce blu con una lunghezza d’onda corta, che riduce la concentrazione di melatonina. Quindi evitate di guardare gli schermi nell’ora prima di andare a dormire. E tirate le tende.

Tempi Non restate svegli nel letto per più di venti minuti. Piuttosto alzatevi e fate qualcosa di tranquillo e rilassante fino a quando non vi viene voglia di dormire.

Consumi Evitare di bere caffeina dopo le 13 e alcol dopo le 5 o le 6 del pomeriggio. In generale non andate mai a letto brilli. L’alcol è un sedativo e la sedazione non è sonno. Purtroppo spesso le due cose sono confuse. Inoltre l’alcol blocca la fase Rem e la frammenta con brevi risvegli nel corso della notte. Se bevete la sera, al risveglio non vi sentirete riposati.-New Scientist


Questo articolo è stato pubblicato il 23 novembre 2018 sul numero 1283 di Internazionale.

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