22 dicembre 2017 13:07

Paghi un contributo per sostenere la tua comunità. In pubblico indossi simboli che t’identificano come uno dei fedeli. Quando ti riunisci con altri adepti, spesso lo fai in una stanza piccola e al chiuso. Il respiro si fa profondo, il corpo comincia a sudare. Se qualcuno parla, di solito è solo per emettere un gemito o un grido d’esultanza.

Andare in palestra è un po’ come andare in chiesa: le persone si riuniscono per svolgere un rituale. Il piacere di inforcare una bici da spinning o di sferrare un pugno al sacco da boxe in una palestra di pugilato non è molto diverso dalla sicurezza che dà entrare in un luogo di culto il venerdì. Sai chi condurrà la cerimonia e puoi perfino prevedere che tipo di energia sprigionerà. Sai che riconoscerai volti familiari tra i partecipanti.

Sempre più statunitensi abbandonano le religioni organizzate (secondo uno studio del Pew center del 2015 il 23 per cento degli adulti si definisce “privo di affiliazione religiosa”, rispetto al 16 per cento nel 2007) e si avvicinano a nuove comunità, oltre che a nuovi modi di raggiungere uno stato di benessere mentale e vivere delle esperienze spirituali. La palestra è uno degli approdi più comuni di questo tipo di ricerca, in parte anche perché imita la forma dei culti religiosi tradizionali.

Prima di tutto, si crea una comunità: un posto dove possiamo radunarci per stare insieme. “Credo di aver capito cosa attira le persone, ed è l’aspetto collettivo”, racconta Sam Rypinski, titolare di Everybody, una palestra di Los Angeles che accoglie persone molto diverse tra loro. “Viviamo in tempi bui. Siamo molto distanti e separati gli uni dagli altri. La tecnologia ci rende ancora più chiusi in noi stessi. Non siamo in sintonia con il nostro corpo, né con gli altri. E quindi se esiste un posto che favorisce questa sintonia, le persone sono felici di andarci”.

Lo sfinimento si combina con la familiarità di una routine e va a formare quella “zona” di cui spesso parlano gli atleti

Come fa notare Rypinski, oltre a farci incontrare persone simili a noi, svolgere un’attività fisica insieme a un gruppo di persone ci aiuta a entrare in contatto con il nostro corpo, un po’ come farebbe un rituale religioso (con movimenti come farsi il segno della croce, inchinarsi o inginocchiarsi). Molte persone passano buona parte delle giornate trascurando il loro lato fisico per concentrarsi su quello mentale. L’esercizio fisico può aiutare a riappriopriarsi del corpo.

Ma aiuta anche a staccare la spina dalle preoccupazioni. L’esercizio fisico ci permette di allontanarci dal flusso di dati che viene dall’esterno, oltre che dall’attività dei nostri cervelli. Fare esercizio è un modo per interrompere questo circuito e non lasciare spazio a pensieri più complicati dell’imperativo “non fermarti!”.

E poi, all’improviso, si crea un’alchimia. Lo sfinimento si combina con la familiarità di una routine e va a formare quella “zona” di cui spesso parlano gli atleti. La “zona” è quel momento in cui tutto comincia a fluire. È uno spazio psichico nel quale ti senti profondamente centrato su te stesso ma anche, in qualche modo, fuori di te. L’esercizio fisico può diventare un modo piuttosto diretto per raggiungere qualcosa che somiglia a uno stato di estasi religiosa.

A volte alcuni corsi creano questo stato per favorire delle pratiche spirituali specifiche. Lo yoga moderno e il suo concetto di “meditazione mobile” è una creazione dell’inizio del ventesimo secolo, una miscela di cultura occidentale della cura del corpo e di tradizioni religiose indiane vecchie di secoli. È concepita per usare “la zona” come un’introduzione a quella chiarezza mentale che cerchiamo anche con la meditazione.

L’approccio fisico può aiutare chi è intimidito o non ama il concetto di religione o spiritualità: “Non c’è niente di più immediato e legato al tempo presente delle tue sensazioni fisiche”, dice Caleb Aschkynazo, che da trent’anni insegna yoga a Los Angeles. “Non c’è niente di meno religioso, niente di meno concettuale”. Lo yoga e le sue pratiche possono insegnarti ad ascoltarti, prima di tutto. E questo, fa notare Aschkynazo, indirizza verso il distacco “dall’infinita cacofonia del rumore, non solo nella tua testa, ma anche dal di fuori”.

La meditazione mobile ha fatto nascere una generazione di centri yoga che si concentrano sull’esercizio fisico come mezzo per ottenere un benessere generale, promuovendo cioè la salute mentale e spirituale (oltre che, naturalmente, fisica).

La catena di spinning SoulCycle, per esempio, riempie le pareti di mantra che inglobano immediatamente i nuovi utenti in un “noi” collettivo che “aspira a essere d’ispirazione” attraverso attività quali “la ricerca della libertà nei nostri spiriti”. Ancor più dell’esercizio individuale, queste lezioni imitano la struttura dei rituali religiosi creando sacche di comunità. Stabiliscono un orario d’arrivo, degli istruttori da riverire come dei guru e degli esercizi di routine da effettuare a comando.

La promessa esplicita che l’esercizio fisico abbia una componente spirituale sembra elevare quest’ultimo a una funzione più elevata: invece di concentrarsi sulla salute e sulla bellezza del corpo, suggerisce che il benessere fisico è una porta d’accesso a uno stato molto più alto e duraturo di felicità e pienezza, proprio come fa la pratica religiosa.

“Esiste un detto, e non l’ho inventato io, che comincia così: chi pensi di essere?”, dice Angela Davis, un’istruttrice di SoulCycle che vive a Los Angeles, molto apprezzata da Oprah Winfrey. “I tuoi pensieri diventano le tue parole. Le tue parole diventano le tue azioni. Le tue azioni diventano le tue abitudini. Le tue abitudini diventano il tuo carattere. Il tuo carattere diventa il tuo destino. Il tuo destino diventa il tuo lascito. Ma tutto comincia con la domanda: ‘Chi pensi di essere?’”.

(La citazione di cui parla ha una una storia ricca e leggermente contorta: cercando su internet viene attribuita a una serie di persone tra cui il mahatma Gandhi e Margaret Thatcher. Secondo uno studio delle sue origini potrebbe non essere stata creata da una sola persona, ma riflettere un sentimento diffuso nella cultura popolare almeno già dal diciannovesimo secolo).

“Quello che spinge le persone verso SoulCycle è il desiderio di essere migliori”, dice. Secondo Davis il lavoro che i suoi allievi fanno sulle biciclette è spirituale, nel senso che “trovano un legame tra spiritualità e fede. E la realtà è che il senso è la fiducia in se stessi. La definizione di fede è: la sostanza delle cose sperate, e l’evidenza del non visibile. E quindi se non avete ancora visto questa elevata espressione di voi stessi ma avete fede e credete che essa esista, avete capito qual è lo spirito giusto”.

La definizione della fede di Davis viene dalla Bibbia: lettera agli ebrei, capitolo undici, primo versetto. Ma Davis non è interessata a predicare una teologia specificamente cristiana nei suoi corsi: piuttosto, dice di voler creare un momento che aiuti le persone a incarnare la versione di sé stessi più elevata a cui ambire, una che non sia spaventata da nuove sfide e dal fare nuove scoperte. L’idea è che se possono trovare questa versione di sé su una bici, potranno farlo anche quando si troveranno poi fuori, nel mondo.

Come ogni religione, il fitness ha cambiato e salvato alcune vite, rovinandone però altre

Questa fusione tra il lavoro sul corpo e il lavoro nelle nostre vite può avere un sapore pericolosamente simile a quello del cosiddetto vangelo della prosperità. L’idea che migliore, più intenso, più veloce e “più”, in generale, siano tutti concetti legati può creare grandi motivazioni, ma equipararli totalmente può anche essere pericoloso e dannoso. Questo non accade solo a SoulCycle, ma fa parte anche della filosofia massimalista e instancabile del sistema di fitness di CrossFit oltre che, in maniera più sottile, di cose come le lezioni di kickboxing o degli esercizi alla sbarra. Cambiano i contesti ma la promessa è la stessa: il tuo corpo diventerà più piccolo, il tuo mondo si espanderà, e la tua vita diventerà migliore, ma solo attraverso un lavoro rigoroso e faticoso.

Questa retorica però non si rivolge a quanti non sono in grado di pagare un abbonamento in palestra o 35 dollari per 45 minuti d’esercizio, per non parlare delle persone disabili che non possono prendere parte ai programmi “per tutti”. Inoltre spesso il marketing e la cultura dei corsi collettivi e delle palestre più costose scoraggiano la partecipazione delle persone sovrappeso o non bianche.

La venerazione del “meglio, più duramente, più velocemente, ‘più’ tutto” può essere deleteria anche per i corpi “sani”, ovvero quelli che sono relativamente in salute. La feticizzazione del risultato costante, che si alimenta della cultura dell’automiglioramento, può creare una mentalità costantemente in lotta, ottima per vendere pacchetti di lezioni, e spingere le persone a prendervi parte anche quando sono stanche o il programma risulta impegnativo, ma possono anche diventare un peso quando prendere una settimana di vacanza diventa un problema da superare.

Per gli istruttori è difficile conciliare l’imperativo di spingere i loro studenti verso i loro limiti e il desiderio di preservare la loro salute, soprattutto quando tale spinta viene dagli stessi studenti. Caleb Aschkynazo tendeva a richiamare gli yogi che secondo lui si stavano spingendo troppo oltre, ma ha smesso di farlo, in parte perché deluso da quanto fossero poco sensibili al suo messaggio.

Davis sottolinea la responsabilità come un criterio fondamentale per i suoi studenti, dal momento che “per responsabilità s’intende la capacità di rendere conto delle tue stesse abilità”, spiega. A suo avviso, il punto non è spingere i propri limiti al massimo, “ma solo cercare di migliorare”.

Ma come facciamo a sapere qual è il nostro meglio se cerchiamo d’incarnare uno stato che non abbiamo mai raggiunto? E come possiamo raggiungerlo senza pericolo, senza ferirci in uno slancio di entusiasmo amatoriale? A volte lo spirito è pronto, ma il corpo no.

Avere degli istruttori pronti a insistere sulla necessità di far rallentare gli allievi è importante poiché l’ossessione per una maggiore intensità e la convinzione che sia un valore assoluto non viene solo da una spinta interiore, o dalla bocca degli istruttori. Viviamo in una cultura che idolatra l’intensità come se fosse un cammino verso la purezza, e che considera la purezza una forma di perfezione desiderabile. Non possiamo necessariamente essere certi che sapremo quando fermarci.

Eseguire azioni difficili in maniera riturale è un modo di ottenere quel che appare come un’esperienza spirituale, ma non è l’unico. È quando il corpo si ribella a questa difficoltà, quando i muscoli si contorcono, o le articolazioni cominciano a fare male per il troppo lavoro o la continua pressione, che l’idea di palestra come chiesa comincia a crollare. Esiste una spiritualità anche nel rallentare, nel fermarsi. È solo che queste due azioni non producono molto profitto, e quindi non abbiamo molti esempi che ci dicono come dovremmo eseguirle.

L’etica dell’esercizio
Forse sembra più naturale ambire a una pienezza spirituale tramite riti che vengono presentati in maniera simile ad altre cose già venerate dalla cultura degli Stati Uniti: il superlavoro e il consumismo. L’etica lavorativa protestante e la brama di consumo possono combinarsi e creare una spinta irresistibile verso un risultato misurabile. Imboccare con decisione una strada spirituale può apparire un gesto narcisistico e vano. Lottare per vivere la propria vita al massimo delle sue possibilità è incoraggiato attivamente. Aggiungere alla spiritualità il sapore del successo può quindi rendere quest’ultima più attraente per alcune persone.

Ma se è possibile trovare una forma di spiritualità anche nel rallentare, non sembrano in molti a scegliere questa strada. Le attività fisiche effettuate in piccoli gruppi rimangono un settore in crescita, specialmente laddove vanno a braccetto con il culto estetico. Stiamo bene in tenuta da ginnastica, e ci sentiamo virtuosi dopo esserci allenati. È facile credere che i nostri corpi riflettano le nostre vite e viceversa. È facile credere a pericolosi miti come quelli che ci dicono come “dovrebbero” funzionare i nostri corpi e le nostre vite. È una grande tentazione quella di considerare il duro esercizio un fuoco purificatore.

Come ogni religione, il fitness ha cambiato e salvato alcune vite, rovinandone però altre. Ma pensarci non è divertente, e non ci dice niente su quel che si prova una volta che si fa parte di questo mondo, quando ci si abbandona all’imperativo categorico dell’esercizio fisico. In quel momento, il nostro mondo si riduce alle nostre spalle, ai nostri tendini, ai nostri polmoni e al nostro cuore. Per il tempo di un respiro, il mondo appare, brutalmente e magnificamente, semplice.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato da The Atlantic.

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