22 marzo 2022 12:06

Non possiamo entrare due volte nello stesso fiume, sosteneva il filosofo greco Eraclito, perché né noi né le acque del fiume saremo gli stessi.

È vero, ma non significa che non possiamo imparare qualcosa chiedendoci quali altre direzioni avrebbe potuto prendere il fiume. Mentre comincia il terzo anno di pandemia, dobbiamo analizzare quei momenti in cui il fiume ha cambiato corso, e i governi di tutto il mondo hanno preso decisioni che hanno influenzato migliaia, se non milioni, di vite.

Cosa sarebbe successo se nel dicembre 2019 la Cina avesse agito con più onestà e apertura? E se nel gennaio 2020 tutto il mondo avesse risposto con la stessa decisione e rapidità di Taiwan? E se gli Stati Uniti avessero adottato misure di protezione adeguate già nel febbraio 2020, prendendo esempio dalla Corea del Sud? Analizzare queste ipotesi significa riconoscere un’amara verità: in molte fasi cruciali della pandemia, sarebbe stato possibile evitare molte sofferenze semplicemente prendendo decisioni che erano a portata di mano. Esaminando questi momenti e capendo cos’è andato storto possiamo sperare, in futuro, di evitare simili errori.

Cos’è successo nelle prime settimane: la Cina ha nascosto la malattia

Le informazioni a nostra disposizione su cos’è successo nel dicembre 2019, quando il virus sars-cov-2 è stato individuato per la prima volta a Wuhan, in Cina, sono ancora limitate. I giornalisti che lavoravano per i mezzi d’informazione occidentali sono stati espulsi, mentre i cittadini e i giornalisti cinesi che avevano condiviso informazioni in quei primi giorni sono stati arrestati. Ma le prove suggeriscono che la Cina fosse a conoscenza del pericolo ben prima di comunicarlo al resto del mondo.

Secondo il South China Morning Post, quotidiano di proprietà di una grande azienda cinese, i funzionari cinesi hanno rilevato i primi casi il 17 novembre 2019. Alcuni scienziati occidentali riferiscono che i colleghi cinesi li avevano informati dell’epidemia a metà dicembre. Ma, da quel momento in poi, i medici che avevano lanciato l’allarme sono stati messi a tacere. Poi alla fine di dicembre gli ospedali di Wuhan hanno cominciato a mettere in quarantena i pazienti, mentre il personale sanitario si ammalava sempre più spesso. Era una chiara prova del fatto che il virus si trasmetteva da persona a persona, il primo passo verso una pandemia.

Il 31 dicembre 2019, tra voci sempre più insistenti, le autorità sanitarie di Wuhan hanno riconosciuto l’esistenza di 27 casi di una “polmonite d’origine sconosciuta” causata da un virus, precisando però di non avere “prove chiare della trasmissione diretta tra esseri umani”. Il 1 gennaio 2020 i mezzi d’informazione cinesi hanno dato la notizia di otto persone punite per aver diffuso indiscrezioni sul virus. Tra loro c’era Li Wenliang, un medico che aveva notato somiglianze tra la polmonite misteriosa e la sindrome respiratoria acuta grave (sars), e aveva invitato i colleghi a indossare equipaggiamenti protettivi (in seguito, il dottor Li è morto di covid-19). Solo il 20 gennaio 2020 le autorità cinesi hanno ammesso pubblicamente che il virus si trasmetteva da un essere umano all’altro. Tre giorni dopo hanno isolato l’intera città di Wuhan.

A quel punto il virus aveva potuto circolare liberamente per settimane e uscire dalla Cina. In tutto il mondo emergevano i primi focolai. La pandemia era in arrivo.

Cosa sarebbe dovuto succedere: la Cina avrebbe potuto dire la verità evitando la pandemia

Tra l’inizio e la metà del dicembre 2019, la Cina avrebbe potuto comunicare all’Organizzazione mondiale della sanità di aver rilevato un’epidemia causata da un coronavirus sconosciuto, simile a quello della sars. Subito dopo avrebbe dovuto sequenziare il genoma del virus e condividere i dati, permettendo di fabbricare i test per rilevarlo. Il resto del mondo avrebbe potuto agire più prontamente: i governi avrebbero dovuto garantire la produzione immediata di test per individuare il maggior numero possibile di casi. Le autorità sanitarie avrebbero potuto isolare i contagiati, tracciando i contatti e avviando le quarantene. Le limitazioni dei viaggi e il tracciamento dei contagi avrebbero potuto impedire la diffusione del virus fuori della Cina.

L’idea che l’epidemia si potesse neutralizzare prima di diventare una pandemia può sembrare irrealistica, ma sappiamo che successivi focolai sono stati contenuti. Quindi poteva esserlo anche il primo. In questo modo avremmo evitato la pandemia, risparmiando al mondo milioni di morti ed enormi sofferenze.

Cos’è successo dopo il silenzio cinese: il mondo ha ignorato gli allarmi e reagito lentamente

Il 30 dicembre 2019 ProMED, un servizio che traccia le malattie infettive a livello mondiale, ha registrato a Wuhan casi di “polmonite d’origine sconosciuta”. Il giorno successivo Helen Branswell, una giornalista esperta di malattie infettive, ha lanciato l’allarme su Twitter scrivendo che la malattia ricordava la sars. Lo stesso giorno il centro per il controllo delle malattie di Taiwan, grazie ai contatti stretti nella Cina continentale, ha inviato un’email all’Oms in cui esprimeva preoccupazione per la presenza di pazienti in isolamento a Wuhan, un chiaro segnale di un’epidemia in corso, con contagi diretti tra esseri umani.

L’11 gennaio 2020 uno scienziato cinese ha coraggiosamente permesso a un collega australiano d’inserire il genoma del virus in una banca dati, senza attendere l’autorizzazione del governo. Il mondo intero ha potuto verificare l’esistenza di un nuovo coronavirus, imparentato con quello che provoca la sars. Il giorno dopo il laboratorio dello scienziato cinese è stato chiuso.

In che modo i governi del mondo avrebbero potuto squarciare la cortina fumogena cinese? Facendo come Taiwan

I dubbi sulla trasmissione diretta del virus tra esseri umani avrebbero dovuto cadere già a metà gennaio, quando si è saputo di una donna in Thailandia e di un uomo in Giappone risultati positivi. Nessuno dei due era mai stato al mercato di Wuhan, che secondo le autorità cinesi era l’origine dell’epidemia. Intanto le autorità cinesi avevano tenuto fermo a 44 il conteggio dei nuovi casi (in un secondo momento abbiamo saputo che gli operatori sanitari non erano autorizzati a riportare casi non collegati al mercato di Wuhan). L’Oms ha continuato a dare retta alla Cina, secondo cui ancora non c’erano prove che il contagio potesse avvenire tra esseri umani.

Solo quando le autorità cinesi hanno isolato Wuhan, il 23 gennaio 2020, il resto del mondo ha capito la serietà della minaccia. Anche in quel caso la risposta globale è stata insufficiente.

Cosa sarebbe potuto succedere: il mondo avrebbe potuto svelare l’inganno cinese e darsi da fare

In che modo i governi del mondo avrebbero potuto squarciare la cortina fumogena cinese? Facendo come Taiwan. Il 31 dicembre 2019, lo stesso giorno in cui hanno inviato l’email all’Oms, le autorità taiwanesi hanno cominciato a controllare tutti gli aerei in arrivo da Wuhan per verificare la presenza di passeggeri con sintomi come la febbre.

“Non siamo riusciti a ottenere risposte soddisfacenti dall’Oms né dalle autorità sanitarie cinesi, quindi ci siamo insospettiti e abbiamo preso delle misure autonomamente”, ha dichiarato a Time il ministro degli esteri taiwanese Joseph Wu.

Le mascherine sono state razionate in modo che ce ne fossero abbastanza per tutti, e sono state distribuite nelle scuole. I soldati sono stati mandati a lavorare nelle fabbriche di mascherine per aumentare la produzione. Il governo ha rapidamente stanziato fondi per le aziende che stavano perdendo clienti e guadagni. Per gran parte del 2020 i casi di covid-19 a Taiwan sono stati pochissimi. Per 253 giorni consecutivi non sono stati registrati nuovi contagi locali, e questo nonostante i numerosi collegamenti con la Cina (Wuhan compresa) prima del gennaio 2020. Grazie ai test e al tracciamento dei contatti, le autorità taiwanesi hanno neutralizzato due grandi focolai – uno nel marzo 2020 e un altro nell’estate 2021, causato dalla variante alfa, più contagiosa – riportando a zero il numero di contagi. Tutto questo dimostra che una risposta tempestiva ed efficace era possibile.

A Taiwan sono stati registrati 853 decessi per covid-19. Se gli Stati Uniti fossero riusciti a mantenere un tasso di mortalità paragonabile, i morti sarebbero stati dodicimila, invece di quasi un milione. Inoltre il caso taiwanese mostra che all’inizio del gennaio 2020 avevamo già informazioni sufficienti per non sottovalutare il virus, e per spegnere possibili focolai.

Cos’è successo dopo che la malattia si è diffusa nel mondo: la gravità della minaccia è stata ignorata

All’inizio della pandemia, nonostante l’abbondanza di prove, molte autorità sanitarie non hanno capito quanto rapidamente si diffondesse il virus, dunque non hanno limitato adeguatamente i contagi. La conseguenza sono stati migliaia di morti.

Il 3 febbraio 2020 la nave da crociera Diamond Princess ha ricevuto l’ordine di restare ferma nel porto giapponese di Yokohama, due giorni dopo la notizia che un passeggero sbarcato a Hong Kong era risultato positivo. Quando è arrivata la notizia che altre dieci persone a bordo erano positive, la nave è stata messa in quarantena. Alla fine le persone contagiate sono state 712, circa il 19 per cento dei passeggeri, con quattordici morti.

Nove operatori sanitari che lavoravano sulla nave si sono contagiati. Il virologo giapponese Hitoshi Oshitani ha sottolineato quanto fosse improbabile che tutti, professionisti esperti di malattie infettive, non avessero preso le dovute precauzioni. In quel momento le linee guida dell’Oms e dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie statunitensi (Cdc) si basavano ancora sulla convinzione che il virus si diffondesse attraverso le goccioline (droplet) espulse da naso e bocca, che precipitavano a terra o sulle superfici a causa delle loro dimensioni consistenti. Il consiglio, dunque, era mantenere la distanza per non entrare nel raggio delle goccioline e lavarsi spesso le mani per neutralizzare quelle raccolte dalle superfici.

Poiché gli operatori erano stati contagiati lo stesso e i passeggeri avevano contratto la malattia nonostante la quarantena, Oshitani sospettava che il virus si diffondesse attraverso particelle più piccole, gli aerosol, che possono percorrere una distanza maggiore, fluttuando e concentrandosi negli spazi chiusi.

La teoria degli aerosol è stata confermata dopo il caso del contagio di massa a una prova di coro con 61 partecipanti a Skagit, negli Stati Uniti, il 10 marzo 2020. La chiesa aveva adottato le linee guida basate sulla teoria delle goccioline, tenendo la porta aperta in modo che nessuno toccasse la maniglia ed evitando strette di mano e abbracci. Nessuno si è avvicinato a meno di due metri dalla persona sospettata di aver portato il virus nella sala. Eppure 52 persone (l’85 per cento dei presenti) sono state contagiate.

Molti esperti occidentali – negli Stati Uniti, in Europa e dell’Oms – hanno ignorato le prove della trasmissione via aerosol. Paesi come gli Stati Uniti non hanno voluto imporre l’uso delle mascherine, preoccupandosi invece di disinfettare dai germi le lettere e le derrate alimentari.

Con l’emergere di nuove prove e di test condotti dagli esperti di aerosol sono arrivati i primi aggiustamenti, che tuttavia sono stati saltuari, limitati e poco pubblicizzati. Per esempio, l’Oms ha raccomandato l’uso delle mascherine negli spazi chiusi, a prescindere dal mantenimento della distanza di sicurezza, solo nel dicembre 2020 e anche allora il consiglio riguardava gli spazi scarsamente ventilati. E abbiamo dovuto attendere il dicembre 2021, due anni, prima che agli operatori sanitari fosse raccomandato l’uso di mascherine più filtranti.

Il 26 gennaio 2020 il ministro della salute cinese ha tenuto una conferenza stampa per dire che anche le persone asintomatiche potevano trasmettere il virus. La stessa settimana un articolo di The Lancet documentava un caso in cui il contagio era visibile nei polmoni di un paziente che per il resto non manifestava sintomi. Un altro articolo del New England Journal of Medicine parlava di casi con sintomi lievi e molto difficili da rilevare. Articoli pubblicati da scienziati tedeschi sono arrivati a conclusioni simili.

Un altro errore è stato non riconoscere una tendenza dominante nella diffusione del virus: i grandi focolai

Tuttavia le autorità sanitarie di molti paesi hanno ignorato, negato e sminuito le prove di infezioni contratte da soggetti asintomatici. Solo a marzo inoltrato le autorità statunitensi hanno ammesso questa possibilità. In questo modo non ci siamo resi conto dell’urgenza di un rilevamento di massa dei contagi. Così il virus si è diffuso in silenzio, senza che fossero prese le dovute precauzioni, fino a quando non sono esplosi i casi in città come New York. Negli Stati Uniti il suggerimento d’identificare e mettere in quarantena le persone entrate in contatto con gli infetti è stato considerato inutile e allarmista. Inizialmente i Cdc e l’Oms raccomandavano l’uso delle mascherine solo per i malati.

Un altro errore è stato non riconoscere una tendenza dominante nella diffusione del virus: i grandi focolai. Nel febbraio 2020 Oshitani e i suoi colleghi sono arrivati alla conclusione che gran parte delle persone infettate non aveva trasmesso il virus e che invece un piccolo gruppo di individui era responsabile di una superdiffusione in spazi chiusi come ristoranti, discoteche, karaoke bar e palestre, soprattutto dove la ventilazione era scarsa. Gli scienziati hanno poi sviluppato nuove tecniche per tracciare i contagi fino all’origine, individuando i “grappoli” di trasmissioni per ricercare altri casi.

Cosa sarebbe potuto succedere: le autorità avrebbero potuto adottare strategie efficaci per bloccare la pandemia sul nascere

Il resto del mondo avrebbe dovuto ascoltare gli scienziati giapponesi. All’inizio di marzo il Giappone – convinto che il virus si diffondesse via aerosol, anche in mancanza di sintomi, e per “grappoli” – ha raccomandato l’uso delle mascherine, sottolineando la necessità di garantire la ventilazione degli spazi e invitando la popolazione a evitare i posti chiusi, affollati e i contatti ravvicinati.

Gli Stati Uniti, invece, hanno continuato a disinfettare i prodotti alimentari, mentre l’Oms continuava a insistere sulla necessità di lavarsi le mani e mantenere le distanze. Il Giappone ha registrato circa 25mila decessi per covid-19, l’equivalente di 66mila decessi in un paese delle dimensioni degli Stati Uniti. Il rilevamento di massa dei contagi avrebbe potuto permettere di individuare gli infetti prima che diventassero contagiosi, a volte anche in assenza di sintomi. La ventilazione e un buon filtraggio dell’aria avrebbero potuto rendere più sicuri gli spazi chiusi.

Invece di chiudere i parchi, molte attività avrebbero potuto tenersi all’aperto (clima permettendo) dove il virus si disperde. Il ruolo cruciale delle mascherine avrebbe potuto essere compreso in anticipo, così come la maggiore efficacia di quelle più filtranti. Piuttosto che sprecare soldi in barriere di plexiglass (che non possono bloccare gli aerosol e invece fermano le correnti d’aria, aumentando il rischio di contagi) le scuole avrebbero potuto ammodernare i loro sistemi di ventilazione, condizionamento e riscaldamento, e installare filtri in grado di bloccare i virus. La strategia contro il contagio a grappoli del Giappone avrebbe potuto essere adottata altrove.

Un’azione tempestiva – indispensabile per arginare una qualsiasi epidemia – sarebbe stata ancora più importante per fermare la diffusione silenziosa e gli eventi superdiffusori, come dimostra il caso sudcoreano. La Corea del Sud ha assistito a gravi eventi superdiffusori nel febbraio 2020, tra cui quello di un raduno religioso con cinquemila contagi, e un unico individuo sospettato di essere la fonte. Il paese si è trovato con il maggior numero di casi, a parte la Cina. Le autorità sudcoreane hanno reagito tempestivamente introducendo un programma intensivo di rilevamento dei contagi (già in preparazione da gennaio) con test effettuati in auto e un attento tracciamento dei contatti.

In questo modo la Corea del Sud ha evitato una possibile catastrofe e ha continuato a limitare i contagi. In tutto il 2020 i morti sono stati meno di mille. Negli Stati Uniti sarebbe stato l’equivalente di settemila morti nel 2020. Le stime, invece, parlano di più di 375mila decessi.

Cos’è successo: quando i vaccini sono stati pronti, li hanno monopolizzati i paesi ricchi

Il più grande risultato scientifico della pandemia è stato probabilmente il rapido sviluppo di vaccini sicuri ed efficaci. Nel gennaio 2020 l’amministratore dell’azienda tedesca BioNtech, Uğur Şahin, ha cominciato a lavorare su un vaccino subito dopo aver letto lo studio di The Lancet sui pazienti asintomatici, convinto che avremmo dovuto affrontare una pandemia. Şahin ha convinto la Pfizer, inizialmente scettica, a sostenerlo.

Il 15 maggio 2020 gli Stati Uniti hanno lanciato l’operazione Warp speed per finanziare sei possibili vaccini. Cinque hanno dimostrato di essere efficaci, un dato di per sé straordinario. Il primo a dare risultati promettenti è stato quello della Pfizer-BioNtech, seguito da quello della Moderna.

Le forniture sono state da subito un problema. La Pfizer ha stimato di poter produrre fino a 1,35 miliardi di dosi nel 2021, sufficienti a garantire la doppia dose all’8,5 per cento della popolazione mondiale. La Moderna, un’azienda di dimensioni più ridotte, non avrebbe potuto superare quella cifra. Anche l’AstraZeneca non poteva produrne abbastanza per tutti.

La possibilità di distribuire equamente il vaccino nel mondo è stata completamente ignorata. I paesi ricchi che avevano ordinato il vaccino o avevano finanziato la ricerca si sono accaparrati la maggior parte delle dosi. In seguito la produzione è aumentata, ma non abbastanza rapidamente. Non è stato formato nessun consorzio né una condivisione delle risorse per aumentare le forniture. La tecnologia non è stata trasferita ai paesi a redditi medio e basso. I brevetti non sono stati sospesi. L’iniziativa Covax, promossa dell’Oms per portare i vaccini nei paesi poveri, non ha potuto comprare un numero sufficiente di dosi. Le donazioni sono state scarse e saltuarie. Alla fine del 2020, con un colpo di scena ampiamente previsto, sono emerse varianti più pericolose del virus: alfa, delta e omicron.

Una distribuzione tempestiva dei vaccini avrebbe potuto scongiurare la comparsa delle varianti, molte delle quali si sono sviluppate nel corso di infezioni persistenti in pazienti immunodepressi, come quelli affetti da aids e non adeguatamente curati. Un altro vergognoso effetto delle disuguaglianze globali in campo sanitario.

Cosa sarebbe potuto succedere: i vaccini avrebbero potuto essere prodotti in quantità e distribuiti equamente

I leader dei paesi ricchi avrebbero dovuto chiamare a raccolta i produttori di vaccini e fargli accettare certi accordi e condizioni, tra cui la condivisione delle strutture di produzione, l’addestramento di personale qualificato e la rinuncia ai brevetti. Il trasferimento delle competenze ai paesi poveri avrebbe potuto garantire l’obiettivo finale di avere un mondo in cui molti paesi sono in grado di produrre vaccini. Le aziende farmaceutiche avrebbero comunque guadagnato somme enormi, soprattutto se si considera la quantità di fondi pubblici che hanno ricevuto per svolgere la ricerca.

I governi naturalmente pensano prima ai loro cittadini, anche a quelli che corrono i rischi minori. Ma per salvare il maggior numero di vite le priorità avrebbero dovuto essere fissate a livello globale. Operatori sanitari, anziani e soggetti a rischio avrebbero dovuto essere i primi. Sarebbe stato opportuno valutare la possibilità di ritardare la somministrazione della seconda dose in modo da garantire una prima vaccinazione al maggior numero possibile di persone in tutto il pianeta. I primi dati sulla protezione offerta da una dose, tra l’altro, erano incoraggianti.

Alcuni paesi, tra cui Canada e Regno Unito, hanno allungato l’intervallo tra le due somministrazioni per proteggere un numero maggiore di cittadini, con ottimi risultati: gran parte della popolazione vulnerabile è stata protetta in tempi brevi. E gli intervalli più lunghi, come avevano predetto molti immunologi, non hanno cancellato la protezione. Del resto il richiamo dopo tre/quattro settimane era stato deciso per accelerare i tempi in fase di sperimentazione. Negli Stati Uniti, però, l’idea di prolungare l’intervallo non è stata proprio presa in considerazione.

Cosa dovrà succedere
Quando la pandemia sarà finita, saremo tentati di lasciarcela alle spalle e tornare alla vita di prima. Per i singoli individui va bene così. Ma all’interno dei nostri governi e dei nostri sistemi sanitari sono emerse della fratture, causate da due anni di inerzia, errori e ostinazione a non arrendersi all’evidenza. Oggi è importante analizzare quello che è accaduto per affrontare meglio le sfide future.

Sarà necessario creare commissioni nazionali e internazionali per capire dove abbiamo sbagliato e come rispondere alle prossime epidemie, senza cercare capri espiatori ma evitando di giustificare ciò che le autorità sanitarie e politiche hanno sbagliato. In alcuni paesi è facile puntare il dito contro persone come Donald Trump, che ha gravemente compromesso la risposta degli Stati Uniti. Ma anche i dirigenti del sistema sanitario e i governatori degli stati hanno delle responsabilità. In un’epoca segnata da una crescente sfiducia internazionale dobbiamo lavorare per rafforzare la cooperazione. Abbiamo bisogno di capire come incorporare rapidamente i dati raccolti sul campo in una politica sanitaria adeguata, migliorando il nostro modo di reagire a eventi complessi.

Se ci riusciremo, se in futuro sapremo salvare vite ed evitare sofferenze, non avremo cancellato tutto il dolore e tutte le perdite degli ultimi due anni, ma almeno potremo dire di aver fatto del nostro meglio per imparare. E speriamo che questa possa essere l’eredità positiva della pandemia.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul quotidiano statunitense The New York Times.

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