14 aprile 2022 11:51

Una settimana prima che la Russia avviasse la sua invasione totale dell’Ucraina, lavoravo come produttore locale per un canale televisivo britannico.

Con alcuni colleghi, seduti in un bel ristorante a Mariupol, discutevamo dei potenziali scenari che l’invasione avrebbe aperto. Di solito la conversazione si riduceva alla frase “i combattimenti potrebbero essere un massacro” e al fatto che oggi anche i corrispondenti di guerra più esperti non hanno mai avuto a che fare con un conflitto tra eserciti convenzionali e ben equipaggiati.

La guerra che oggi sta devastando le città ucraine è una sfida nuova per chiunque lavori coi mezzi d’informazione. L’esperienza nei conflitti precedenti è quasi irrilevante. Dopo il 24 febbraio, l’esperto di sicurezza con cui stavamo lavorando è tornato a casa in Irlanda per qualche giorno: si era reso conto che tutti i suoi protocolli di sicurezza per i giornalisti dovevano essere rivisti. Niente del lavoro che aveva fatto in passato – in Iraq, Siria, Libia e Sudan – era adatto a spiegare ai reporter come muoversi nel mezzo di una guerra di terra e di aria che oppone due eserciti europei.

Ciò detto, lavorare come giornalista straniero è relativamente facile in Ucraina. Molte persone parlano lingue europee. Puoi arrivare a Kiev dal Belgio, per fare un esempio, in uno o due giorni via aereo o treno, senza bisogno di entrare illegalmente come ha fatto la giornalista Marie Colvin in Siria. A mio avviso, esiste una chiara distinzione tra i buoni e i cattivi in questa guerra e non c’è bisogno di approfondire troppo il contesto politico. Il fatto che stiamo vivendo una guerra di simili proporzioni in Europa aiuta sicuramente a vendere qualsiasi articolo o lavoro prodotto. Per scrivere una storia di successo, basta scendere per le strade di Charkiv e parlare con la prima persona che incontri.

I giornalisti vogliono apparire in piedi in mezzo a un combattimento in corso perché aumenta le possibilità di fare carriera

È per questo che la guerra della Russia contro l’Ucraina ha attratto figure di ogni sorta: giornalisti delle principali testate internazionali, autori e fotografi freelance, registi di documentari e tutto il resto. La maggior parte di queste persone è unita da un fatto: non può fare quasi niente da sola. È difficile trovare una storia e finire un articolo se non conosci la lingua e non puoi nemmeno fare domande. I giornalisti stranieri hanno bisogno di buoni produttori locali che mettano a disposizione le loro competenze linguistiche, la comprensione della cultura locale e del territorio e i contatti sul campo. Le preparate e intraprendenti persone del luogo che aiutano i giornalisti stranieri sono spesso chiamate “fixer”, un termine che io considero stupido e degradante.

Per i produttori ucraini lavorare per un’importante testata internazionale è un buon modo di garantirsi almeno un po’ di sicurezza e stabilità finanziaria. In un mondo ideale, i giornalisti occidentali e i loro colleghi ucraini si sosterrebbero e rispetterebbero a vicenda. Ma in pratica succede quasi il contrario. A un mese dall’inizio della guerra, possiamo vedere come i giornalisti occidentali – anche se non tutti e non sempre – spesso manchino di rispetto ai loro colleghi ucraini. Ne trascurano la sicurezza. Violano ogni possibile standard etico che, tra venti o trent’anni, insegneranno a dei giovani studenti di giornalismo in luoghi come il Missouri o Londra.

“Sei fortunato, abbiamo un giubbotto antiproiettile in più”, hanno detto i giornalisti di uno dei più importanti canali televisivi italiani a un produttore locale mio conoscente. “È un tuo problema se non ne hai uno. Stiamo andando a Charkiv”. Questi giornalisti rifiutano l’idea che possa essere loro responsabilità offrire un kit di protezione al loro autista. Il mio collega si è rifiutato di lavorare per loro in queste condizioni.

Alcuni giornalisti di un’importante televisione statunitense hanno chiesto a un altro gruppo di giornalisti ucraini: “Perché non volete andare a Mariupol con un convoglio umanitario? È molto importante mostrare cosa sta succedendo lì”. Non capiscono che il produttore e l’autista – dal momento che hanno passaporti ucraini – non possono passare i posti di blocco russi, ai checkpoint verrebbero fermati e interrogati. Non capiscono nemmeno che avere un giornalista che viaggia con un convoglio umanitario ucraino è un elemento che aumenta il rischio che questo venga preso di mira dall’esercito russo.

Spesso vogliono registrare uno standup, nel quale un giornalista televisivo appare di fronte alla telecamera per raccontare una storia, avendo come sfondo una città distrutta. Dicono di volerlo fare perché è “importante”, ma c’è dell’altro. Il vero motivo per cui vogliono apparire in piedi in mezzo a un combattimento in corso – una cosa che rappresenta un rischio inutile per tutta una squadra di giornalisti – è che questo aumenta le possibilità di fare carriera per aver dimostrato “coraggio” e senso di “sacrificio”, o altre parole prive di senso.

Vittime ucraine
Alcuni giornalisti occidentali sembrano coltivare un senso di superiorità che si fonda sull’idea che lavorino meglio dei loro colleghi ucraini. Eppure, dopo l’invasione russa, sono stati i giornalisti ucraini Evgenyj Maloletka e Mstislav Černov a raccontare una cosa che nessuno aveva raccontato: erano gli unici giornalisti che lavoravano attivamente a Mariupol mentre la città era assediata dalle truppe russe. Sono riusciti a documentare il bombardamento del reparto maternità di Mariupol per l’Associated Press e, grazie a loro, tutto il mondo ha visto cosa succedeva laggiù. Quando si vede il lavoro che Maloletka e Černov hanno fatto a Mariupol, ogni tentativo di raggiungere questa città assediata e sotto costante bombardamento sembra un’azione vana e motivata perlopiù dal desiderio dei giornalisti di mettersi in mostra.

La morte della produttrice ucraina Oleksandra Kuvshynova e del cameraman di Irish Fox News Pierre Zakrzewski in un bombardamento del 14 marzo alla periferia di Kiev è una dimostrazione al riguardo. Viene da chiedersi perché l’équipe di Fox News abbia ritenuto sensato recarsi in un luogo così pericoloso per raccogliere notizie e interviste. Uno dei miei colleghi, un produttore come me, ha visto le immagini girate dall’équipe, recuperate da una telecamera che non è stata danneggiata, ed è dell’opinione – da me condivisa – che avrebbero potuto tranquillamente girare le stesse scene nel centro di Kiev. In questo senso Fox News ha le mani sporche del sangue di Kuvshynova. Se l’équipe di Fox avesse filmato a Kiev, l’unica differenza sarebbe stata l’assenza di colpi d’armi da fuoco automatiche sullo sfondo. Ma esiste una pressione sui giornalisti, in particolare quelli televisivi, affinché siano il più vicino possibile al cuore dell’azione, in modo da realizzare immagini forti che servono a ottenere grandi ascolti televisivi.

Non sono rimasto scioccato nello scoprire che in passato le principali testate stampa hanno spesso tradito gli esperti locali. Alcuni giornalisti stranieri sono tristemente noti perché molti dei produttori locali sono morti mentre lavoravano per loro. Ma è stato scioccante scoprire il cinismo col quale le testate internazionali sfruttano i produttori e gli esperti ucraini.

La reazione di Fox News alla morte di Oleksandra Kuvshynova è stata stupefacente. Inizialmente la rete ha ritardato l’annuncio della sua morte, giustificando poi la cosa con la necessità d’informare prima la famiglia. Poi Fox l’ha definita una “consulente”, invece che una giornalista, e ha continuato a riferirsi a lei usando il suo soprannome Sasha, un fatto che è suonato irrispettoso. Era come se a morire non fosse stata la loro collega ma semplicemente una conoscente di Kiev. I produttori locali solitamente non ricevono il giusto riconoscimento per il contributo essenziale che offrono ai giornalisti. Il caso di Kuvshynova ha chiarito che questo mancato riconoscimento prosegue fino alla loro morte.

Il comportamento di molti colleghi stranieri (che lavorano per testate occidentali ma anche mediorientali o asiatiche) a proposito della sicurezza è semplicemente non professionale e irresponsabile. Ecco alcuni dei principali problemi:

  • Alcuni giornalisti non si procurano giubbotti antiproiettili, elmetti e kit di primo soccorso prima di arrivare in Ucraina, come se non avessero idea di dove stanno andando.
  • Non ascoltano gli avvertimenti dei produttori locali sul grado di pericolo, anche se questi produttori conoscono la geografia del posto e comunicano con volontari e membri dell’esercito ucraini.
  • Non pagano gli onorari stabiliti, o tirano sul prezzo, come si contratta sui pomodori al mercato.
  • Esigono che i produttori locali si avventurino in situazioni pericolose senza un vero scopo.
  • Non capiscono che, per loro, essere in una zona di guerra è una scelta. Una scelta che invece non hanno i giornalisti ucraini.
  • E, fatto più importante, non capiscono il fatto più evidente, e cioè che ovunque vadano sono più al sicuro degli ucraini grazie ai loro passaporti stranieri, contratti a lungo termine e assicurazione.

Gli ucraini possono fare poco per evitare che i giornalisti occidentali e le testate per cui lavorano facciano questi errori. Incoraggio quindi i loro colleghi nella comunità giornalistica internazionale a farsi avanti, e a denunciare questi comportamenti inaccettabili.

Naturalmente il rapporto tra giornalisti stranieri e fixer locali si fonda su rapporti di potere sbilanciati. Quando un produttore esperto dice che non vuole andare in un posto pericoloso, è sempre possibile assumere un insegnante d’inglese del posto, o un giovane studente di giornalismo, che andrà ovunque per metà dei soldi. Per molti, il giornalismo è ancora una ricerca di gloria ed eroismo e i dispacci di Ernest Hemingway dalla guerra civile spagnola rimangono un modello ancora oggi. Proprio come i personaggi dei film che hanno guardato, questi studenti o insegnanti freschi d’assunzione andranno in un vero e proprio inferno senza un giubbotto antiproiettile. I nostri colleghi che vogliono fare i duri gli diranno semplicemente: “Andrà tutto bene, non fartela addosso”.

Linee guida per i giornalisti in situazione di pericolo, come le zone di guerra, esistono da tempo. Alcune testate aderiscono a esse e sono davvero interessate all’incolumità dei loro dipendenti, che si tratti sia di un giornalista di Londra sia di un produttore locale di Dnipro. Quando un esperto di sicurezza si toglie il suo giubbotto antiproiettile e lo dà al suo autista ucraino, semplicemente perché capisce che la mancanza di un simile giubbetto è una sua responsabilità, e che l’autista non dovrebbe essere esposto a un simile pericolo per questo motivo, è già un buon inizio.

Ma dobbiamo esigere che tutte le testate internazionali aderiscano a questi princìpi. Altrimenti il conto dei giornalisti uccisi in Ucraina aumenterà ogni settimana. La guerra scatenata dalla Russia è cominciata da quasi due mesi e i responsabili dei contenuti editoriali sembrano preoccupati che l’interesse del loro pubblico per il conflitto possa attenuarsi. La città di Leopoli, nell’Ucraina occidentale, lontana dal fronte e dove si sono stabiliti molti di loro, non è più abbastanza per i giornalisti. Vogliono sangue, morte e sparatorie. E probabilmente li avranno.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato da openDemocracy.

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