28 maggio 2018 18:18

In una calda serata e dopo una giornata ancora più calda ci sono pochi argomenti di cui si riesce a parlare con gli amici. Eravamo in quattro: M, una palestinese cittadina di Israele che vive a Ramallah, J, nato a Gaza ma che vive a Ramallah, T, un amico comune arrivato da Londra, e io. Certo abbiamo citato Gaza. Dopotutto negli ultimi dieci giorni non ho fatto altro che parlare con persone che ci hanno vissuto fino a poco tempo fa. Ma in una serata calda e dopo una giornata ancora più calda ci si sente in colpa a parlare di un luogo dove l’elettricità arriva solo per quattro ore al giorno e gli ospedali sono strapieni di pazienti, feriti e mutilati dai cecchini israeliani.

In una serata così calda c’è bisogno di cubetti di anguria. “L’ho comprata dai nostri cugini”, ha detto M. Per lei, che lavora a Gerusalemme, “cugini” è un modo per dire “ebrei”. Può essere cinico, comico o dispregiativo. “Ecco perché è buona”, ha risposto J. T non capiva. Gli abbiamo spiegato come stanno le cose: le angurie vendute a Ramallah dovrebbero essere coltivate in Cisgiordania, patriotticamente locali. Ma per qualche motivo non sono buone. Troppo mature, troppo morbide, poco dolci. J ci ha raccontato di essere andato al negozio e aver chiesto se le angurie erano coltivate in Israele. Il venditore ha risposto: “Sì, sì, guarda l’etichetta”. “No, le voglio locali”, ha risposto J allontanandosi. Il venditore lo ha fermato: “Aspetta, sono locali, metto l’etichetta solo perché la gente vuole quelle israeliane”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è uscita il 25 maggio 2018 nel numero 1257 di Internazionale, a pagina 29. Compra questo numero | Abbonati

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