09 luglio 2019 12:18

La scala Allport serve per valutare il grado di pregiudizio e discriminazione esistente all’interno di un gruppo sociale o di una comunità. La concepisce nel 1954 lo psicologo cognitivista americano Gordon Allport, autore del seminale Nature of prejudice e vero pioniere (per dire: tra i suoi allievi c’è anche Stanley Milgram, quello del famosissimo e raggelante esperimento di Milgram sull’obbedienza all’autorità).

Consiste in cinque livelli. Ve li racconto in sintesi perché conoscerli e saperli identificare, in questi tempi ruvidi e ostili, può tornare utile assai.

Mi toccherà usare un sacco di virgolette, perché la percezione della “diversità” e dell’“inferiorità” (e la discriminazione che ne consegue) è, oltre che odiosa, fluttuante, arbitraria e soggettiva. E infatti vi prego di ricordare che ciascuno di noi è, potenzialmente, il “diverso” e l’“inferiore” (o, per dirla con De Crescenzo, il meridionale) di qualcun altro.

Dunque. Il primo livello della scala Allport riguarda le rappresentazioni negative (antilocution) che un qualsiasi gruppo (ingroup) dà di coloro che sono giudicati “diversi” (outgroup): comprende l’uso di stereotipi, la maldicenza, la ridicolizzazione, il discredito, i discorsi d’odio.

Il secondo livello consolida le rappresentazioni negative trasformandole in pregiudizi. Il disprezzo e lo stigma sociale che già al primo livello colpiscono i “diversi” si traducono in evitamento (avoidance): il gruppo tende ad azzerare ogni occasione di contatto materiale, a cominciare dal contatto oculare.

I pregiudizi si trasformano in subordinazione costante e in divieti discriminatori

Insomma: i “diversi” non si guardano, non si toccano e vanno tenuti il più possibile lontani. Conseguenza: i “diversi” vengono emarginati e isolati. Cosa che, oltre a causare profonde ferite psicologiche, ovviamente riconferma la loro “diversità”.

Il terzo livello (discrimination) riguarda la concretezza della quotidianità. I pregiudizi si trasformano in subordinazione costante e in divieti discriminatori: ai “diversi” è limitato o negato l’accesso alle opportunità che la comunità offre, dall’istruzione al lavoro, alla sanità pubblica, alle case popolari, ai servizi sociali. La facoltà di espressione dei “diversi” è ridotta: se provano a far valere le loro ragioni vengono ignorati o interrotti. Oppure quanto dicono viene riformulato.

Il quarto livello (physical attack) riguarda un’intolleranza così estrema da esprimersi attraverso il ricorso alla violenza e all’aggressione fisica: stiamo parlando di agguati, pestaggi e spedizioni punitive. I beni materiali di proprietà dei “diversi” possono essere bruciati o vandalizzati.

Il quinto livello (extermination) riguarda la cancellazione dei “diversi”, che può verificarsi attraverso lo sterminio o la rimozione di un’ampia frazione del gruppo, o dell’intero gruppo.

Tutto ciò vi suona familiare e vi ricorda sia eventi del recente passato, sia fatti della cronaca contemporanea, vero?

Per carità: non è automatico che episodi di intolleranza riconducibili al primo livello della scala Allport siano destinati a intensificarsi nel tempo. Sottovalutarli e minimizzarli, però, è una pessima idea: suggerisce che, tutto sommato, sia possibile alzare il tiro e passare impunemente da un livello all’altro.

Mantenere un’attenzione costante e contrastare dichiarazioni e comportamenti ostili e discriminatori è invece un buon modo per evitare che le cose peggiorino. Che le “diversità” non tollerate si moltiplichino. E che l’avversione nei confronti dei “diversi” sia inizialmente considerata tutto sommato inoffensiva, e poi naturale, e poi legittima, e poi doverosa e necessaria.

A proposito dei rischi del sottovalutare, vi ricopio questo testo, tratto da un sermone del teologo tedesco Martin Niemöller. Ce ne sono molte versioni.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.

La cosa da sapere è che il testo riflette la biografia dello stesso Niemöller, prima ufficiale comandante di sottomarini e decorato. Poi pastore luterano, conservatore convinto e iniziale sostenitore del nuovo ordine hitleriano. Poi oppositore del regime e internato a Dachau. Infine, dopo la guerra, pacifista convinto e firmatario della dichiarazione di colpevolezza di Stoccarda, in cui le chiese protestanti tedesche si dichiarano, appunto, colpevoli di essersi opposte in modo troppo blando e tardivo al nazismo. Ma accorgersene “dopo” non cambia le cose, vero?

Ancora a proposito della percezione del pericolo di stereotipizzazione e discorsi d’odio, c’è un ultimo punto interessante che voglio segnalarvi.

Oggi alle imprese si richiedono correttezza e integrità assolute. Se n’è accorta Alitalia, che in un recente spot pubblicitario ha usato il blackface: cioè un attore bianco con la faccia dipinta di nero per rappresentare Barack Obama e, con ciò, lanciare un nuovo volo diretto tra Roma e Washington.

Ne sono conseguiti scandalo e profonda irritazione, sia sui social network sia sulla stampa (qui il New York Times): il blackface negli Stati Uniti è considerato umiliante e profondamente razzista. Alitalia si è scusata e ha cancellato lo spot. Il fatto che l’offesa sia stata palesemente non intenzionale non l’ha fatta percepire come meno grave.

In incidenti analoghi sono peraltro incorse diverse aziende. Il New York Times ricorda Gucci e Prada, H&M, Nike. Ma ci sono anche Zara e Burberry, e molti altri.

E il punto è questo: all’offerta commerciale si chiede con attenzione, vigore e puntiglio crescenti di non incorrere mai, neanche per errore, in affermazioni o comportamenti discriminatori. Invece, sembra che l’offerta politica si stia via via facendo più forte, in molti paesi, proprio attraverso messaggi e proposte discriminatorie, e facilmente riconducibili ai livelli della scala Allport.

Insomma: che un politico pratichi costantemente i discorsi d’odio, o arrivi a incoraggiare implicitamente perfino l’aggressione fisica, sembra meno grave. Fa meno impressione, suscita meno scandalo e viene considerato solo (solo??) come un brutto espediente retorico per catturare consenso. Una sgradevole conseguenza della necessità di farsi sentire e di mantenersi visibili sui social network.

Insomma: è come se da consumatori, e nei confronti delle aziende, si potesse oggi essere molto più attenti alla correttezza che da cittadini, e nei confronti della politica. È un paradosso sul quale varrebbe la pena di riflettere, ma sul serio.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it