01 febbraio 2018 11:45

È passato un mese, ma il dibattito non si placa. Il 28 dicembre, a Mashhad, seconda città dell’Iran, c’era stata la prima delle manifestazioni contro il caro vita che per una settimana hanno scosso il paese.

Nel 2009 avevamo visto la classe media urbana iraniana scendere in piazza per protestare contro presunti brogli elettorali. All’epoca i cortei erano stati impressionanti, così come il coraggio dei manifestanti. In discussione c’era l’intero regime, ma oltre al fatto che questo non si poteva dire, per prudenza, era evidente che non era la massa popolare a manifestare.

A Mashhad e nelle 80 città che ne hanno seguito l’esempio, invece, erano i più poveri a urlare la loro collera, una collera immensa contro il folle aumento dei prezzi dei prodotti alimentari.

Intervento pragmatico
Senza alcun obiettivo strategico, il popolo ha contestato platealmente il regime, a cominciare dalla guida suprema, Ali Khamenei, capo delle sovrastruttura clericale che in Iran ha più potere delle istituzioni elette. Non si era mai visto niente del genere.

Dopo i borghesi, anche il popolo rifiutava la teocrazia. Tuttavia il presidente della repubblica, il pragmatico Hassan Rohani, ha saputo affrontare il terremoto ricorrendo solo alle forze dell’ordine e senza coinvolgere i guardiani della rivoluzione, lo stato nello stato che rappresenta il braccio armato dei conservatori.

Questa crisi aveva dunque avvantaggiato il presidente e i riformatori che lo sostengono, ma da allora tutte le correnti del regime, riformatrici e conservatrici, si interrogano sul da farsi. Per i riformatori bisogna allentare il guinzaglio, sollevare il coperchio prima che la pressione lo faccia saltare. Ma i conservatori non vogliono sentirne parlare, convinti che sia meglio “comprare” i più poveri sovvenzionando i prezzi, e pazienza per l’equilibrio di bilancio.

Rohani ha fatto capire che come successe allo scià anche questo regime potrebbe cadere

Il dibattito è sempre più acceso, tanto che Rohani non ha esitato a dichiarare in un discorso trasmesso in tv nella giornata del 31 gennaio, alla vigilia di dieci giorni di commemorazione della rivoluzione islamica, che lo scià è caduto perché non aveva saputo ascoltare il popolo. “Non ha ascoltato i consigli del popolo. Non ha ascoltato la voce dei riformatori, dei suoi consiglieri, degli universitari, delle élite e delle persone istruite”.

Rohani parlava dello scià, ma chiaramente intendeva la guida suprema, incarnazione della teocrazia. Il presidente ha fatto capire che, come lo scià, anche questo regime potrebbe cadere. È un chiaro avvertimento lanciato ai conservatori, da prendere per quello che è: forse prematuro, ma totalmente corretto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it