15 ottobre 2020 16:40

Il diplomatico nordcoreano Jo Song-gil scompare insieme alla moglie da Roma, nel novembre del 2018. Faceva le veci dell’ambasciatore in Italia. La notizia trapela solo all’inizio di gennaio del 2019 e ha una certa risonanza: si tratterebbe del diplomatico più alto in grado a scegliere la fuga dal 1997. Il ministero degli esteri italiano dice di non saperne niente. La figlia adolescente della coppia, rimasta nell’ambasciata, viene rimandata a Pyongyang. Come mai non era con i genitori? Il 6 ottobre 2020 un deputato sudcoreano rompe il silenzio e rivela su Facebook che Jo vive sotto protezione a Seoul da luglio 2019. Sulla vicenda si continua a sapere poco. Carla Vitantonio, cooperante che ha vissuto quattro anni in Corea del Nord e autrice di Pyongyang Blues (Add 2019), è tra le persone che l’hanno conosciuto meglio.

Un giorno del 2018 un ex collega mi dà su Facebook la notizia che Jo Song-gil, ambasciatore incaricato in Italia, è sparito. Sono incredula. Jo Song-gil è una delle persone con cui sono stata a più stretto contatto nei quattro anni trascorsi in Corea del Nord: per un anno e mezzo era stato il mio referente al ministero degli esteri nordcoreano. Una specie di guardiano personale. La mia prima reazione è di terrore. Non voglio avere niente a che fare con una vicenda così delicata e complessa. Cancello il messaggio dell’ex collega, evito di leggere le notizie, non voglio saperne nulla. Il 7 ottobre 2020 sul web trovo la vicenda raccontata ovunque: Jo Song-gil è riapparso in Corea del Sud. Per lo meno sta bene, penso, per lo meno è al sicuro. Ora si può raccontare qualcosa di più su di lui.

Conobbi il signor Jo al mio arrivo a Pyongyang, nel luglio 2012. Era il referente locale dell’ufficio italiano di cooperazione, dove avrei lavorato per quasi due anni come “antenna” (referente per l’ambasciata di Seoul). Per tutto quel periodo Jo è stato il mio “coreano personale”, ovvero la persona addetta a controllarmi e a guidarmi nei meandri della complicata e criptica burocrazia nordcoreana. Per lui quello era l’incarico da svolgere prima di ripartire per un’altra missione all’estero. Aveva già lavorato all’ambasciata italiana e sperava di poterci tornare o, meglio ancora, di essere spedito in Francia. Il nostro era un ufficio piccolo con un bilancio sempre troppo limitato per permettere grosse operazioni che avessero importanti riscontri diplomatici. A ogni modo Jo conosceva scena e retroscena, ma non spettegolava. Quando cambiai mansione ci salutammo in modo sbrigativo, come se avessimo dovuto incontrarci il giorno dopo. Non sapevo che non ci saremmo rivisti mai più.

Eppure Jo è forse la persona con cui sono stata più vicina in quei quattro anni. Sapevo perfino che al pomeriggio, dopo aver chiuso l’ufficio, tornava nel palazzo dove viveva con la moglie e la figlia, davanti all’hotel Koryo, e aiutava la bambina con i compiti di matematica. Non sapeva, mi raccontava sorridendo, se fossero più pesanti per lei o per lui. Queste sono cose che in genere non si sanno del proprio “coreano personale”. Inoltre, sapevo che quasi non beveva alcolici, perché aveva una specie di allergia che hanno molti coreani. Così, quando andavamo a Wonsan per negoziare con i rappresentanti locali a suon di soju, lui a un certo punto si alzava e mi diceva di continuare da sola. Il che non era proprio ortodosso, ma insomma. Facevamo così. Spesso ho pensato che è stato solo grazie al tempo trascorso con Jo che sono riuscita a sopravvivere quattro anni laggiù. Avevo imparato molto su cosa si poteva dire, e soprattutto su cosa è meglio non dire.

È più magro di quando stavamo insieme nel piccolo ufficio a Pyongyang

Nella foto sul giornale Jo ha una specie di trofeo di plastica in mano, una di quelle cose orribili che si ricevono alle manifestazioni ufficiali, e che poi si lasciano di nascosto nelle stanze d’albergo fingendo sia stata una distrazione. È magro. Più magro di quando stavamo insieme nel piccolo ufficio a Pyongyang e mangiavamo ogni giorno riso bianco, kanarí (bianchetti essiccati) e altre delizie coreane riscaldate per noi dal nostro autista. Chissà come ha fatto a dimagrire, forse ha ricominciato a fumare quelle sue sigarette dal pacchetto color oro che mi offriva ogni giorno dopo il caffè? E chi sono quegli occidentali intorno a lui? Lo sanno che Jo non mangia piccante? O credono allo stereotipo che tutti i coreani si facciano il bagno nel peperoncino? Appuntata sul petto, Jo ha la spilla con i faccioni di Kim Il-sung e di Kim Jong-il. Il che significa che la foto è di prima. Di quando Jo era ancora Jo. Di quando, per essere Jo, doveva mettersi la spilla.

La spilla fu la prima cosa che notai di lui al mio arrivo. La spilla rettangolare, a forma di bandiera che sventola. La scelta mi era sempre sembrata piuttosto singolare. La maggior parte dei “coreani personali” portava una spilletta più discreta, tonda, con la faccia di Kim Il-sung o di Kim Jong-il. Jo no. Sempre la spilletta a bandiera. A me a guardarla venivano in mente le canzoni dei CCCP.

Grazie agli algoritmi di Google, da qualche giorno la foto di Jo appare ciclicamente sul mio telefono, e io ogni volta penso al libro di Tom Clancy che non ho fatto in tempo a dargli. L’avevo trovato in una libreria nel mio appartamento di Pyongyang, un mobile che conservava la memoria delle vite, delle speranze e delle frustrazioni dei cooperanti che negli ultimi quindici anni avevano vissuto lì. Mi era caduto tra le mani e mi ero immediatamente ricordata di Jo. A Jo piace Tom Clancy. Me l’aveva detto in un paio di occasioni quando lavoravamo ancora insieme, che gli piacevano le storie di Tom Clancy. Chissà dove le aveva lette. Magari proprio in Italia, nel corso della sua prima missione diplomatica, molto prima che io lo conoscessi. Io francamente di Tom Clancy non avevo mai letto niente e non mi sarei nemmeno soffermata su quell’orribile edizione se non fosse stato per Jo.

Però il libro non ho potuto darglielo, perché quando l’ho trovato non lavoravamo più insieme. L’avevo chiamato nel suo nuovo ufficio per proporgli di passare, sapevo che negli orari di apertura era lui a rispondere al telefono. Mi aveva detto di no, che era meglio di no. Che il libro gliel’avrei dato un’altra volta. E così l’orribile edizione economica di Tom Clancy è rimasta ad ammuffire nella libreria del mio appartamento a Pyongyang, io ho lasciato per sempre la Corea del Nord e a quanto pare anche Jo.

Nella foto pubblicata dai giornali ride come imbarazzato, la sua faccia non ha niente a che vedere con quella che ha nelle foto che mi sono rimaste di quel giorno al museo dei doni sul monte Myohyang, o di quella volta che siamo andati insieme sulla torre del Juche, un freddo cane. Io avevo un cappello fucsia di pelliccia sintetica. Jo il cappello non se lo metteva mai. I giornali parlano di lui come se fosse una cosa, un oggetto, una funzione. LA funzione. Interpretano, prevedono, speculano. Ci manca solo che scommettano. Prendendo in mano i miei appunti nordcoreani, ritrovo questa frase scritta in un momento di sconforto: “Non ce l’hanno con me, ce l’hanno con quello che rappresento”. E all’improvviso il mondo si rovescia.

Jo non è più Jo, non è più il mio amico, il mio confidente, il traduttore personale e unico che mi svelava con grazia, tatto e discrezione la Corea del Nord, cercando le parole nel grosso dizionario che aveva appoggiato accanto al suo computer. Non è più quello che riusciva sempre a produrre un nuovo miracoloso foglio Excel per far quadrare i conti dei risicatissimi bilanci del nostro ufficio. Non è la persona che durante le nostre gite mi aiutava a saltare da una pietra all’altra per attraversare i ruscelli. Non è l’uomo con cui ho studiato tutti i movimenti delle vigilesse di Pyongyang per prendere la patente nordcoreana. No. Niente. È il funzionario di alto grado, l’ambasciatore, il diplomatico scomparso, il defector, la funzione. Appunto.

Mentre fioccano le speculazioni, continuo a domandarmi se si è portato quella macchinetta del caffè col manico rosso che gli avevo regalato. Io ne ho ancora una uguale.

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