02 gennaio 2018 09:58

Mentre il 2016 è stato l’anno in cui i movimenti populisti erano ancora una sorpresa, il 2017 doveva essere quello del loro trionfo. Con le elezioni previste in Austria, Francia, Germania e Paesi Bassi, per citare le più importanti, tutta l’attenzione era dedicata ai populisti che, nella stragrande maggioranza dei casi, rappresentavano la destra radicale populista.

I mezzi d’informazione britannici e statunitensi sostenevano che i terremoti della Brexit e dell’elezione di Donald Trump avrebbero provocato gravi scosse di assestamento sul continente europeo, portando alla scomparsa di leader centristi di lungo corso, come la cancelliera Angela Merkel in Germania, e all’ascesa di nuove personalità populiste, come Marine Le Pen in Francia.

Il mantra ricorrente di un populismo rafforzato che sconfigge lo status quo dopo averlo assediato ha subìto un primo colpo con le elezioni parlamentari nei Paesi Bassi. Era il marzo 2017 e il Partito per la libertà (Pvv) di Geert Wilders ha registrato un risultato inferiore alle aspettative, anche rispetto ai sondaggi più realistici diffusi subito prima del voto. Il grande “vincitore” politico è stato invece il primo ministro Mark Rutte, anche se ha adottato la propaganda e in parte le politiche del Pvv. Rutte ha dichiarato che il suo “populismo buono” aveva sconfitto il “cattivo populismo” di Wilders, e i mezzi d’informazione internazionali hanno seguito questa linea. Siamo tutti populisti!

Il vero test
Tuttavia, il vero test per quel mantra ricorrente erano le elezioni presidenziali francesi nell’aprile scorso, le uniche con il sistema maggioritario a doppio turno. Per buona parte dell’anno precedente, Marine Le Pen era rimasta in testa nei sondaggi come la personalità politica francese col più alto gradimento. Tuttavia, i mezzi d’informazione non avevano riportato il fatto che Le Pen fosse di gran lunga anche il politico più impopolare del paese, e ciò ha azzerato le sue possibilità di vincere al secondo turno.

Alla fine, la candidata del Front national ha raggiunto risultati al di sotto delle aspettative in entrambi i turni, in parte a causa della campagna elettorale indebolita da diverse inchieste giudiziarie e della scarsa performance in un dibattito televisivo, ed è stata eclissata dal nuovo astro nascente della politica europea, Emmanuel Macron, che ha stravinto anche le elezioni parlamentari del mese successivo. Inevitabilmente, anche lui è stato chiamato “populista”: malgrado i fatti, il populismo doveva essere il grande vincitore del 2017!

Macron veniva poi ridefinito come outsider invece che come un populista a tutti gli effetti, mentre i giornalisti stavano cominciando a ventilare un nuovo mantra: la morte del populismo. Esagerando i risultati mediocri di Le Pen e Wilders, in particolare nel confronto tra risultati reali e aspettative irrealistiche.

Alla luce di questa situazione, le elezioni parlamentari tedesche di settembre hanno rappresentato la prova del nove per il populismo. Merkel avrebbe trionfato, dando ai populisti il colpo di grazia, o sarebbero stati i populisti di estrema destra di Alternativa per la Germania (Afd) a porre fine ai suoi dodici anni alla guida della Germania?

I mezzi di informazione riserveranno al populismo un’attenzione sproporzionata

La risposta delle urne è stata incerta: l’Afd ha registrato il secondo miglior risultato per un partito al terzo posto nella storia recente, ma Merkel e l’Unione Cdu/Csu sono rimasti chiaramente i soggetti più solidi della politica tedesca. Nei mezzi d’informazione e tra gli opinionisti regnava il caos: il populismo ne è uscito vincitore o sconfitto? La sentenza doveva giungere dai vicini austriaci, che avrebbero votato per rinnovare il parlamento a ottobre 2017. Tuttavia, le elezioni in Austria hanno offerto un altro scenario, che mostrava alcune somiglianze sia con la situazione olandese, sia con quella francese.

Il grande vincitore del voto austriaco è stato il giovane ministro degli esteri Sebastian Kurz, che ha trasformato il partito conservatore Övp in uno strumento politico personale, sul modello di quanto fatto da Macron in Francia. D’altra parte, Kurz ha ripreso la strategia del “buon populismo” adottata da Rutte nei Paesi Bassi, sostenendo una reazione autoritaria e nativista di fronte alla cosiddetta crisi dei rifugiati.

Tuttavia, in totale rottura con gli altri paesi, che hanno ostracizzato i populisti di estrema destra, Kurz ha coinvolto il partito estremista Fpö nella formazione di governo. A differenza di quanto accaduto nel 2000, quando il suo predecessore Wolfgang Schüssel aveva fatto lo stesso, questa volta non c’è stata una forte reazione nazionale o internazionale. La destra radicale e populista è stata normalizzata, sia essa un partner politico o una forza emarginata.

Con questo panorama arriviamo al 2018, anno in cui molti paesi europei con solidi partiti populisti andranno al voto, compresi Ungheria e Italia. Cosa possiamo aspettarci, rispetto alle lezioni del 2017?

Prima di tutto, non ci sono lezioni valide in generale, poiché l’Europa è un continente, non un paese. Le elezioni nazionali sono, per definizione, nazionali! Pertanto, il voto in Ungheria sarà influenzato da fattori ungheresi, come ad esempio la divisione interna dell’opposizione; e quello in Italia da fattori italiani, tra cui l’attuale situazione migratoria. In secondo luogo, il populismo continuerà a interessare le elezioni europee, soprattutto in quei contesti in cui i partiti populisti erano già presenti un decennio fa. In terzo luogo, a prescindere da quale sia il vero risultato dei partiti populisti, i mezzi di informazione internazionali gli riserveranno un’attenzione sproporzionata.

(Traduzione di Andrea Torsello)

Questo articolo è stato pubblicato su VoxEurope.

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