15 gennaio 2021 14:59

Le immagini della folla radunata sull’avenue Bourguiba di Tunisi dal dicembre 2010 al gennaio 2011 hanno, in poche settimane, cancellato decenni di teorie sull’eccezionalismo arabo che poneva come fatto indiscutibile che i popoli arabi accettavano quietamente i loro dittatori per via di strane particolarità culturali. A livello globale, i telespettatori scoprivano così il viso e la voce di popoli che chiedevano quello che si credeva impensabile qualche giorno prima: libertà, pane e dignità.

Nel mondo arabo, queste stesse immagini – che sembravano inverosimili visto quanto rischiavano i coraggiosi manifestanti contro la dittatura di Zine el Abidine Ben Ali, una delle più repressiva della regione – sono state viste sui canali panarabi, le televisioni e gli smartphone – con l’arrivo dei social network – e hanno dato vita a un movimento regionale eccezionale: come un domino tutti i paesi della regione si sono uniti alla protesta. I manifestanti in Marocco e in Libia sono scesi in piazza nelle settimane successive alla rivoluzione tunisina; l’Algeria ha aspettato altri otto anni per organizzare le sue proteste, ma la “rivoluzione del sorriso”, cominciata nel 2019, ha sicuramente il suo posto in questo movimento storico.

Tunisia: Mai più paura, Farah, Hedi e gli altri
Plus jamais peur (Mai più paura) di Mourad Ben Cheikh presentato al festival di Cannes nel 2011 chiede, a partire del suo titolo, come e quando cade il muro della paura: quali sono i fattori che permettono di andare oltre il terrore di uno stato repressivo com’è stato quello di Ben Ali? Uno dei documentari di riferimento sulla rivoluzione del gelsomino risponde a questa domanda a partire da filmati girati direttamente dai protagonisti delle rivolte.

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Dopo il 2011, il cinema tunisino ha prodotto film di altissima qualità che continuano la riflessione attraverso personaggi di finzione. La giovane Farah di
A peine j’ouvre les yeux (Appena apro gli occhi ) di Leyla Bouzid (2015) ha 18 anni, canta in gruppo rock e intende vivere a pieno la sua gioventù. Un anno prima della rivoluzione comincia la sua propria primavera, con musica, amori e feste, andando contro tutte forme di autorità. Il più introspettivo Hedi, di Kader Ben Attia, che ha ricevuto il premio per il migliore film alla Berlinale del 2016 ritrae, con un coinvolgente Majd Mansoura nel ruolo di Hedi, Orso d’argento per il migliore attore, un’altra rivoluzione più delicata e personale, ma altrettanto definitiva.

Simpatico epilogo della rivoluzione tunisina, che tira anche la somma dei dieci anni di una transizione democratica sofferta, Un divano a Tunisi di Manele Labidi Labbé racconta invece con scene esilaranti il tortuoso percorso di una giovane tunisina cresciuta in Francia che torna nel paese per aprire il primo studio di psicanalisi di Tunisi sul tetto di casa. Un film leggero che sdrammatizza le aspettative che ha creato a livello di società un evento politico così travolgente come una rivoluzione.

Libia, La guerra al più vicino
L’avventura rivoluzionaria libica comincia subito più armata e violenta della rivolta tunisina: il leader della Jamahiriya Muammar Gheddafi risponde alle proteste con le armi.

In uno dei suoi ultimi discorsi avvertì che avrebbe schiacciato “ogni rivoluzionario come topi”. La citazione diventa il sottotitolo dell’eccezionale documentario di quattro ore di Florent Marcie Tomorrow Tripoli che ha seguito per otto mesi un gruppo di ribelli delle montagne di Zintan, mentre scendono dalle jebel fino alle rive del Mediterraneo per combattere Gheddafi. Il documentario è filmato stando vicino ai combattimenti, e mostra uomini sempre pronti a morire, ma anche assaliti da tanti dubbi sul progetto politico a venire.

Sotto Gheddafi, il cinema libico era inesistente, e uno dei primi film di finzione nato dopo la rivoluzione è Al Emarah di Mouyed Zabtia, selezionato in diversi festival di cinema horror, è un atto d’accusa violentissimo contro la tortura commessa dal regime di Gheddafi.

Morocco: dopo il 20 febbraio
Le proteste in Marocco hanno preso il nome della data del primo appello a scendere per strada: il 20 febbraio 2011. A rivedere il video, diventato virale sui social network marocchini, si ricorda come molte delle richieste della gioventù – dignità, lavoro, libertà – siano ancora senza risposta, malgrado le timide riforme concesse dal re a seguito delle proteste.

Il corto Mamfuckinch di Ghassan al Hakim, vincitore del Yallah Film festival che selezionava nel 2011 i migliori corti sulle primavere arabe filmati con il telefono, si diverte con il gioco di parole Mamfankinsh “nessuna concessione” in darijah marocchino e la parolaccia inglese, e racconta la determinazione di una gioventù esasperata e molto politicizzata.

Stesso bilancio con il lungometraggio Le chant des tortues (Il canto delle tartarughe) di Jawad Rhalib che guarda le proteste attraverso gli occhi di artisti, attivisti e intellettuali marocchini.

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Rhalib si rivolge anche alla delusione di una generazione che non ha ottenuto ancora la libertà desiderata: “Il cambiamento nella società marocchina è inevitabile”, spiega Rhalib. “Dopo trent’anni di vuoto, è nata una generazione di rivoluzionari. Tra la lepre o la tartaruga, chi di noi scommetterebbe sulla vittoria della tartaruga?”.

Algeria, la rivoluzione del sorriso
In Algeria, un film che va a cento all’ora, Papicha, César francese per il migliore film nel 2020, spiega molto chiaramente, attraverso un gruppo di ragazze algerine che sognano una libertà che pagano cara con la violenza islamista, perché l’Algeria ha avuto paura a iniziare una rivoluzione nel 2011, dopo undici anni di guerra civile.

Nel 2019 però, con la seconda ondata delle rivoluzioni, gli algerini si rinnamorano di loro stessi, come raccontato dal documentario Algérie mon amour di Mustapha Kessous. Il documentario mette il dito nella piaga e crea una crisi diplomatica profonda: il regime ha addirittura richiamato il suo ambasciatore in Francia dopo la diffusione del film. L’hirak, il movimento di proteste pacifico, tiene al suo soprannome di “rivoluzione del sorriso”, ripreso dal bel documentario Objectif hirak, in cui il regista Redha Menassel usa lo sguardo di cinque fotografi per raccontare le manifestazioni.

Rivedere anni dopo le immagini dell’epoca, gli appelli a scendere per strada o i film che hanno riflettuto su questi movimenti eccezionali permette di capire in profondità non solto quei momenti storici entusiasmanti, ma anche le questioni democratiche attuali, che non riguardano solo il Maghreb.

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