04 ottobre 2016 12:30

La Polonia ha una delle leggi più restrittive d’Europa sull’interruzione volontaria della gravidanza. Non esiste un diritto assoluto di abortire (nemmeno in Italia, ma le condizioni sono meno rigide), ma sono previste alcune circostanze straordinarie per cui è permesso: per gravi patologie fetali, in seguito a uno stupro e in caso di pericolo per la salute della donna.

Le prime due, se si parte dall’attribuzione di diritti agli embrioni, sono contraddittorie ma compaiono in molte normative restrittive. Se consideriamo gli embrioni come individui dotati del diritto alla vita, queste eccezioni sono ipocrite: è impopolare sostenere che non si può abortire se ti hanno stuprato, e tuttavia le circostanze del concepimento non hanno la forza di cambiare lo statuto ontologico dell’embrione.

La terza eccezione, pur non inciampando in incoerenze tanto invadenti, si presta a un’interpretazione oscillante di cosa significa “pericolo”. Se la premessa è che l’embrione è una persona, tra l’altro, potrebbe non essere evidente o scontato decidere che la vita della donna sia più importante.

La vita del nascituro è più o meno importante del rischio di diventare cieca? O del rischio di subire una qualche altra conseguenza irrimediabile? A questo proposito è utile rileggere Tysiac v. Poland: una donna polacca aveva chiesto di poter abortire per non rischiare di diventare cieca, molti medici avevano confermato questo rischio ma nessuno le aveva concesso l’autorizzazione di interrompere la gravidanza; il caso era arrivato fino alla Corte europea dei diritti umani.

In ogni discussione sull’aborto la prima domanda a cui bisognerebbe rispondere è: chi deve decidere?

Ora lo scenario in Polonia rischia di diventare ancora più oppressivo: una nuova proposta di legge vorrebbe rendere l’aborto sempre illegale tranne che in caso di immediato pericolo di morte per la donna – e non si può non pensare a Savita Halappanavar, morta di setticemia e per negligenza medica. In questo caso, nemmeno un aborto spontaneo in corso è bastato ai medici cattolici per intervenire e salvare la vita di Halappanavar.

La violazione del divieto potrebbe costare fino a cinque anni di reclusione.

Le proteste sono molte (qui c’è una mappa recente delle città che hanno aderito alle iniziative contro la proposta di legge). La Black protest (#BlackProtest o #CzarnyProtest) mira a uno sciopero generale e molti degli slogan richiamano la libertà di scelta e i rischi legati a un divieto. “Vogliamo medici e non missionari”.

Perché è tanto grave limitare la possibilità di ricorrere (più o meno) liberamente all’interruzione volontaria della gravidanza? E quali sono le conseguenze più gravi di una legge restrittiva o del divieto di abortire?

In ogni discussione sull’interruzione volontaria della gravidanza la prima domanda a cui bisognerebbe rispondere è: chi deve decidere?

E se la risposta è che nessuna donna può decidere sulla propria gravidanza, come si può far rispettare un simile divieto? Carcere preventivo? Controlli riproduttivi? Polizia della fertilità?

I diritti dell’embrione
Sembra difficile confutare che l’unica possibile risposta alla prima domanda sia: ogni individuo (in questo caso ogni donna) in grado di intendere e di volere deve poter esercitare una libera scelta riguardo al proprio corpo e alla propria salute. Certo, l’embrione e il feto sono intrinsecamente coinvolti nelle decisioni della donna, ma questo non basta a confutare che l’interruzione di una gravidanza possa essere decisa solo dalla donna. L’unica alternativa sarebbe imporre di portare avanti la gestazione, e non è una via percorribile (spesso perfino i più estremisti si intimidiscono davanti a questo scenario e continuano a ripetere “basta non rimanere incinte”, facendo finta di risolvere così la domanda e il problema).

Ma è poi davvero possibile dimostrare che l’embrione sia un individuo con diritti fondamentali e che sia equiparabile a una persona? La discussione, che è morale e giuridica e non fattuale, potrebbe prolungarsi all’infinito, e in genere i prolife sostengono la personalità potenziale e non attuale. “Siccome quell’embrione diventerà una persona”, ripetono, “allora abbiamo il dovere di trattarlo come se già lo fosse”. Suona bene, ma a pensarci non ci verrebbe in mente di usare un simile ragionamento in altri contesti. “Siccome quel neonato diventerà un adulto, allora lo trattiamo già come fosse un adulto e gli attribuiamo il diritto di votare al prossimo referendum”.

I diritti derivano da alcune caratteristiche e da alcune circostanze che sono molto diverse tra embrioni e persone, tra neonati e adulti. Quelle caratteristiche e circostanze emergono gradualmente (è il cosiddetto problema della soglia: quando un certo x diventa y? Non sarà un momento preciso se parliamo dello sviluppo di un organismo, ma una fase temporale). Equiparare due stadi diversi è sbagliato. Trattarli come fossero uguali pure.

L’attribuzione di diritti fondamentali all’embrione è, oltre che non facile da sostenere teoricamente, pericolosissima sul piano giuridico e fattuale. L’attribuzione di diritti fondamentali all’embrione trasforma ogni azione o scelta in un potenziale reato (ci sono stati già casi di donne condannate per “spaccio di sostanze” perché durante la gravidanza erano affette da una qualche dipendenza o per abusi infantili per comportamenti giudicati dannosi durante la gravidanza). Riduce fino a eliminarla la possibilità di compiere delle scelte e, infine, spinge nell’illegalità un servizio che dovrebbe essere medico.

Rimane, ovviamente, la possibilità di non abortire per chi non vuole, perfino in caso di pericolo per la salute o di vita. Alcune donne hanno deciso di non curarsi per portare avanti una gravidanza e nessuno dovrebbe impedirgli di compiere una simile scelta.

D’altra parte dovrebbe essere garantita anche la scelta contraria. Qualunque altra soluzione è moralmente ripugnante e giuridicamente molto discutibile.

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