15 luglio 2016 16:58

L’adolescenza è una brutta bestia. Il corpo si trasforma, il sesso è una cosa misteriosa, tanto attraente quanto spaventosa. Si è sempre eccitati e sempre un po’ spaventati. Non ci si sente più al sicuro come quando si era bambini. E i genitori, che fino a quel momento erano presenze granitiche, sembrano quasi galleggiare via, fuori dal campo visivo. Sempre più lontani, sempre meno centrali.

I protagonisti di It follows, lo strano film di David Robert Mitchell, sono i tipici teenager di un horror. Sono ragazzi intelligenti, articolati, indipendenti e mediamente incasinati. I loro genitori, come nei Peanuts, non compaiono mai. Tra loro ci sono piccoli amori e piccole gelosie incrociate. Ognuno, anche la bellissima Jay (Maika Monroe), ha qualcosa di stonato: dei capelli buffi, una sbucciatura sul ginocchio, un vestito troppo colorato, una forma di goffaggine. Yara (Olivia Luccardi) ha due occhialoni da nerd e legge continuamente da una specie di kindle che sembra un portacipria a forma di conchiglia. Legge L’idiota di Dostoevskij, spesso ad alta voce.

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Una Detroit iperreale

È una fine estate qualsiasi in un sobborgo di Detroit tanto iperreale da sembrare un diorama. C’è un’accuratezza dell’inquadratura, un gusto per il dettaglio architettonico, la presenza di una natura vagamente selvaggia, un po’ marcia, che fa pensare alle foto di Gregory Crewdson. La luce è fredda, artificiale: è come se guardassimo questi sobborghi sonnolenti e i suoi abitanti da dietro un vetro.

It follows è straniante. Siamo nella classica ambientazione di mille film, di mille sitcom, di mille serie tv, ma c’è qualcosa che non torna: è la luce strana, certo, ma anche la lentezza con cui tutto si muove. È un film dell’orrore noioso, in cui non succede nulla di davvero eccitante. Ma è proprio per questo che entra sotto la pelle e riserva momenti di autentico terrore.

Ovviamente muore una ragazza. E come spesso capita, la vittima zero non ha nome. La vediamo uscire dalla casa dei genitori sotto una luce livida: è scarmigliata, allucinata. Fugge da qualcosa, ha dei tacchi esagerati nei quali incespica senza grazia. La vedremo morta subito dopo, in una scena che è allo stesso tempo una citazione e una radicale reinvenzione del ritrovamento di Laura Palmer in Twin peaks di David Lynch. Come Laura Palmer, anche la ragazza senza nome viene trovata su una spiaggia. Ma non è avvolta in un sudario di plastica che la fa sembrare un’Ofelia preraffaellita. La prima vittima di It follows ci compare davanti senza preavviso, in un flash: ed è a pezzi, una grottesca scultura futurista di arti spezzati.

Presto si capirà che esiste una maledizione. Una specie di paranoia venerea che si trasmette da un giovane corpo all’altro, facendo l’amore. All’inizio sembra un’allucinazione, ci si sente seguiti, minacciati da una presenza che cambia forma: una vecchia, un uomo nudo su un tetto, un bambino con la palla. Ma poi si capisce che questa cosa invisibile a tutti, tranne a chi ne è infettato, è capace di uccidere nei modi più cruenti.

È un male senza nome e senza faccia quello di It follows. È un male senza movente e senza ragione. E il film non fa il minimo sforzo di dargli un senso. È pura paranoia e la cosa che rende così spaventoso il film è proprio quest’assenza di finalità. Succede e basta. E tu non puoi scappare.

È come se David Robert Michell avesse smontato un horror e avesse messo ogni suo tassello in una teca

Eppure le cose che accadono sono tutte ovvie. Ovvie in modo quasi ridicolo. Jay fa l’amore in macchina col suo ragazzo e rimane infettata, secondo il copione sessuofobo e vagamente pruriginoso degli horror statunitensi. I suoi amici le danno man forte e passeranno varie notti tutti insieme, asserragliati in una casa al mare. Naturalmente sono circondati dal male: tra assi che si spaccano, porte che si aprono da sole e fasci di luce soprannaturale.

C’è anche una scena notturna tra fulmini e saette. È tutto scontato, ma ogni cliché di genere è come falsato, decontestualizzato. È come se David Robert Michell avesse smontato un film dell’orrore e avesse messo ogni suo tassello narrativo in una teca di cristallo o su un piedistallo. Con tanto di didascalia. Un po’ come Marcel Duchamp ha fatto con la ruota di bicicletta o con l’orinatoio. Sono tutti elementi familiari, ma li vediamo sotto una luce nuova, strana e decisamente inquietante.

Non è un caso che ogni volta che viene inquadrato un televisore accesso, in un soggiorno o in una cucina, c’è un film di fantascienza o di orrore degli anni cinquanta. It follows è un horror ossessionato da se stesso. È ombelicale, involuto, fastidiosamente concettuale. Quando diventa troppo didascalico, come nello showdown finale in una piscina che sembra uscita dritta dalla Gotham City di Tim Burton, si trasforma rapidamente in un’altra cosa. Lo sguardo è catturato dai vecchi elettrodomestici che i ragazzi schierano a bordo piscina per trasformarla in una specie di sedia elettrica per uccidere “la cosa” che li perseguita. Ci sono vecchi frullatori, tostapane, macchine per scrivere: It follows smette di essere un film dell’orrore e sembra il montaggio di un’installazione della biennale.

Forse la vera forza di questo film è la sua assoluta libertà dalla schiavitù della trama. Non sono possibili spoiler per It follows perché non c’è nulla da spoilerare. Quello che succede è davvero poco interessante, sono i dettagli che rimangono impressi nella memoria dopo giorni. La minacciosa colonna sonora di Disasterpeace, il rosso del sedile della macchina in cui Jay perde la verginità, il blu della piscina prefabbricata in cui fa il bagno. Ma soprattutto, lo sguardo allucinato ma determinato che ha “quella cosa” quando ti fissa senza guardarti.

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