14 ottobre 2016 17:20

In spite of wishing and wanting, lo spettacolo andato in scena al teatro Argentina di Roma l’11 e il 12 ottobre per il Romaeuropa Festival, è la ripresa, con un nuovo cast di danzatori, di una produzione del 1999 della compagnia fiamminga Ultima Vez di Wim Vandekeybus.

In scena ci sono solo uomini per 110 minuti. Uomini che danzano, recitano e interagiscono tra loro attraverso esplosioni di energia. È uno spettacolo atletico, sfiancante, in cui corpi forti e muscolari sembrano leggerissimi nonostante la loro potenza. È uno spettacolo sul desiderio e sulla paura. La paura primordiale di sparire, di essere mangiati, di piombare nel non essere. Desiderio e terrore sono strettamente legati fin dal primo quadro, in cui i danzatori galoppano in scena, sono cavalli focosi e imbizzarriti. È un momento sospeso in cui teatro, danza e circo si mescolano.

Wim Vandekeybus ha esordito nella seconda metà degli anni ottanta proponendo una danza estremamente istintiva, fisica ed energica. Con il tempo il suo lavoro si è evoluto, incorporando momenti recitati e forme di espressione diverse (Vandekeybus è anche regista cinematografico). In spite of wishing and wanting, che ebbe un grande successo quando debuttò nel 1999, è diventato quasi un manifesto per un nuovo tipo di teatro danza, più ruvido che rifinito, più istintivo che stilizzato.

La musica, appositamente composta da David Byrne, è percussiva, selvaggia e, in filigrana, ha degli elementi tropicali che riportano a una realtà sensuale e primitiva. È proprio la musica il filo più semplice da seguire per tenere insieme i vari quadri che compongono lo spettacolo. Il suono infatti dà la dimensione del tempo, del susseguirsi di giorno e notte, di sonno e veglia in questo mondo di soli uomini, ingenui, giocosi ma spaventati. Come bambini.

In spite of wishing and wanting della compagnia Ultima Vez di Wim Vandekeybus. (Danny Willems)

Nello spettacolo le parti parlate hanno un ruolo importante. Sono le parole infatti che fanno scattare l’immaginazione dei danzatori che si trasformano in cavalli, uccelli e pantere, in una messa in scena moderna di idee animiste e primitive. Le parole sono magiche in questo spettacolo e, come nel teatro di Jean Genet, trasformano, rafforzano, rendono invulnerabili. In In spite of wishing and wanting le parole sono talismani e vengono scambiate, vendute, spacciate come droga.

Il mondo di In spite of wishing and wanting non è però l’isola governata dai ragazzini del Signore delle mosche. È un luogo interiore, è l’eterno presente del maschile, l’eterna infanzia del maschio che cerca le parole per descriversi, per sfuggire al nulla. L’assenza di donne in scena sottolinea questo stato di sospensione. Nel mito il futuro è sempre legato alla donna più che all’uomo. È la donna che con la sua funzione riproduttiva garantisce la continuità e il “dopo”. E non è un caso che nel mito siano le donne a essere profete, pizie o maghe. L’indovino Tiresia aveva il seno, ed era una creatura, diremmo oggi, intersessuale. Le donne inventano il futuro, mentre l’uomo da solo è puro presente, azione fulminea, istinto animale.

L’assenza di donne nello spettacolo (ne compare qualcuna nei due cortometraggi che fanno quasi da entr’acte) non significa però assenza del femminile. Nei rapporti tra i danzatori l’elemento femminile è sublimato in gesti di affetto, di cura, di attenzione, di estrema leggerezza e di grazia. È come se tutta l’aggressività fisica e verbale che esplode in scena fosse un livello superficiale, sotto il quale scorre qualcosa di più profondo e ancestrale. Forse è proprio lì l’ignoto da cui sono tanto spaventati.

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