13 settembre 2022 16:45

Da quando esistono i dischi pop esiste la piaga, perché spesso si è trattato di una piaga, del disco latino. Artisti che non hanno nulla a che fare con la cultura e la musica sudamericane si lanciano in spericolate riletture latineggianti del loro repertorio. Molto spesso a fare da volano a queste operazioni c’è un nuovo ballo: negli anni venti il tango e l’habanera, la rhumba negli anni trenta, il samba e la conga negli anni quaranta (il Tico tico di Carmen Miranda che si ballava in fila, tipo trenino), il mambo negli anni cinquanta via via fino alla mania della bossa nova negli anni sessanta e della salsa negli anni settanta. Ed è un filo ininterrotto che ci porta fino alle hit estive italiane di oggi che scimmiottano il reggaeton o la cumbia.

Con lo sviluppo del long playing, a partire dagli anni quaranta, il mercato si è aperto a ogni tipo di concept album, dall’album live (registrato dal vivo in più serate in un locale), alle raccolte dedicate a un solo autore, ai dischi a tema, fino ai dischi internazionali, in cui interpreti famosi cantavano, spesso maldestramente, in italiano, francese o spagnolo. Il disco latino, particolarmente in auge sul finire degli anni cinquanta, può essere considerato un sottoinsieme del disco internazionale. Nel 1960, Peggy Lee, insieme a Frank Sinatra la grande pioniera del pop come lo intendiamo oggi, incide un album di grande successo intitolato Latin ala Lee! (Broadway hits styled with an afrocuban beat) - ovvero grandi successi di Broadway eseguiti su ritmi afrocubani. È la pietra filosofale del successo pop: canzoni già molto amate dal pubblico vengono riarrangiate, accelerate e accompagnate da orchestre cubane, con cori in spagnolo e assoli di conga e marimba. A un’interprete abile come Peggy Lee non rimane che accentuare il suo già notevole sex appeal con la scusa del “selvaggio ritmo latino”. Dal 1960 in poi chiunque fa musica è costretto a uscire con un album in stile cubano, e tra tutti i balli che arrivano dalle isole il più popolare, negli Stati Uniti come in Europa, è il cha cha cha. Il nuovo ritmo, a cui è associato un ballo abbastanza facile da imparare, è una derivazione dei primi anni cinquanta del danzón-mambo cubano e viene suonato dai charanga, tipiche orchestrine cubane formate da flauto, archi, contrabbasso, pianoforte e percussioni.

Quando la cantante e attrice afroamericana Della Reese (Delloreese Patricia Early, 1931-2017) decide, nel 1960, d’incidere un album di standard a ritmo di cha cha cha l’idea non è particolarmente nuova. Quello che rende Della Della cha cha cha, arrangiato dal quasi sconosciuto O.G. Masingill, un album memorabile è la scelta particolarmente felice del repertorio e la debordante personalità dell’interprete.

Nata a Detroit nel 1931, Della Reese comincia la sua carriera come cantante gospel, scoperta dalla grande Mahalia Jackson. Presto però si stacca dalla chiesa e intraprende una fortunata carriera nella musica secolare, ispirata in particolare dallo stile di Dinah Washington. I suoi album degli anni cinquanta svelano un’interprete matura e misurata, dal timbro e dallo stile assolutamente inconfondibili. A tutt’oggi è sorprendente come Della Reese non sia mai ricordata tra le grandi del jazz vocale, insieme a Billie Holiday, Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan. Reese è anche capace di evolversi: nei primi anni sessanta è la prima donna di spettacolo nera a condurre un programma in tv e per tutti gli anni settanta e ottanta è una celebrità televisiva. Nella vita ha fatto tutto: dal doppiaggio nei cartoni animati di Scooby Doo, a Harlem nights con Eddie Murphy, fino a essere ordinata sacerdote, nei primi anni ottanta, con il titolo di Reverenda Della Reese Lett.

Reese nel 1960 è all’apice della sua fama e della sua bellezza: non è solo una cantante eccellente, ha anche una figura e un aplomb paragonabili a quello delle pochissime star afroamericane che, prima di lei, sono state capaci d’intaccare il mainstream bianco, gente come Lena Horne o Dorothy Dandridge. Della Della cha cha cha dunque è un lavoro eccezionale, anche se non certo il migliore della sua discografia, perché è in egual misura una grande prova di cantante e una grande prova di attrice. Il cha cha cha è una scusa per svelare, canzone dopo canzone, un suo nuovo personaggio: una provocante signora che ha già molto vissuto e che condivide con il pubblico una sua disincantata visone del mondo. Tutto al ritmo indiavolato della danza esotica del momento, che le permette di togliersi le scarpe e liberarsi per un momento dalle costrizioni del bon ton.

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Il programma parte con Diamonds are a girl’s best friend, dal musical del 1949 Gentlemen prefer blondes reso celeberrimo al cinema da Marilyn Monroe. Della Reese non è certo bionda e la sua Diamonds è tanto aggressiva e sfacciata quanto quella di Marilyn era sorniona e finto ingenua. Reese ha una voce audace da contralto afroamericano, aggiunge un suono vocalico a ogni parola che finisce con una consonante, dando al suo canto un ritmo incalzante, quasi parlato. Il contrasto tra la sua voce gospel e blues e l’orchestra latina rende il tutto deliziosamente incongruo e fatalmente camp. Della Reese cavalca la tigre fino all’ultima canzone del disco, con un’ironia tagliente che riesce a non cadere mai nel farsesco. In Why don’t you do right si sfiora il mambo ma Reese è troppo impegnata a sgranare le parole, attualizzandole un po’, di una canzone resa famosa da Peggy Lee nel 1942. In scaletta ci sono ben quattro pezzi di Cole Porter: Let’s do it (Let’s fall in love), Always true to you in my fashion, My heart belongs to daddy e Love for sale. La prima è, notoriamente, un gioco all’accumulo di doppi sensi più o meno velati e Reese li sorvola quasi, per cambiare le parole nel ritornello in cui “let’s do it, let’s fall in love”, diventa “let’s do it, let’s cha cha cha”, rivelando, se ce ne fosse stato bisogno, la vera natura di quel “facciamolo”.

In Always true to you in my fashion (“Sempre onesta con te ma a modo mio”), Reese torna a vestire i panni della Material girl ma non gioca a nascondino, e quando canta del petroliere texano che le firma dei begli assegni o del plutocrate che in cambio di un buffetto su una guancia le regalerà un cappellino da Parigi lo fa con una ruvidezza e una cupidigia mai osate dalle altre interpreti di questo standard. Nell’album abbondano gli sugar daddy: oltre al paparino di My heart belongs to daddy c’è Daddy, una canzone dei primi anni quaranta di Bobby Troup, in cui una ragazza chiama il suo amante “papino” e lo convince a comprarle bei vestiti e altre cose lussuose. Della Reese, sostenuta da un mambo, non fa la gatta morta, il ritmo scoppiettante dell’arrangiamento non glie lo permette, ma la butta quasi sul ridere: non scandisce neanche le parole ma le lega strettamente tra loro con mestiere da grande interprete.

Ci si diverte e si ride in Della Della cha cha cha, e proprio per questo l’ultima canzone, Love for sale di Cole Porter, colpisce per il brusco cambio di registro. Reese riesce a rendere drammatico e intimo un pezzo sulla natura opportunistica dell’amore. Fino a quel momento ha cantato di ragazze facili e di paparini generosi, di crociere a caccia di milionari, di capricci da ragazzina e di uomini come “male necessario” per pagare i conti. Improvvisamente, ed è qui il colpo di teatro, muovendosi cauta su un arrangiamento di marimba e di vibrafono Reese smette di giocare, tira fuori la Dinah Washington che è in lei e lascia parlare le parole amare e disincantate della canzone. Il giochino del ritmo latino usato per giustificare bamboleggiamenti e doppi sensi piccanti viene giù e l’arrangiamento allegro del cha cha cha fa da sfondo all’ultimo disvelamento, l’amore è una merce che si vende e si compra: “Lasciate che i poeti cantino dell’amore, io conosco ogni tipo di amore molto meglio di loro”.

Della Reese
Della Della cha cha cha
Rca Victor, 1961

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