06 dicembre 2022 11:48

Christine McVie (1943-2022) si era scelta un nome d’arte al contrario: si chiamava Christine Perfect e ha invece scelto di diventare famosa con il nome del primo marito, il bassista storico dei Fleetwood Mac, John McVie. Era nata con un nome da pop star e ha voluto vivere, anche sul palco, con un cognome normale, quasi banale. Questo dice tutto del suo carattere. Ottima tastierista, cantante dotata di una voce scura e affascinante, autrice più che solida, per la maggior parte della sua vita ha fatto da collante, non solo artistico ma anche umano, di uno dei gruppi più famosi e rissosi della storia della musica pop: i Fleetwood Mac, appunto.

McVie è la ragione per cui i Fleetwood Mac, band di blues rock britannica trapiantata in California alla fine degli anni sessanta, sono diventati una fabbrica di hit radiofoniche irresistibili per almeno tre decenni. È stata lei, per esempio, a capire che per la nuova versione californiana della band servivano teste nuove ed è stata lei a decidere che la cantante Stevie Nicks e il suo fidanzato, il chitarrista Lindsey Buckingham, sarebbero diventati dei componenti fissi del gruppo. I due, all’epoca due bellissimi ragazzi un po’ hippy, con il sole tra i capelli e senza un soldo in tasca, avrebbero trasformato il suono dei Fleetwood Mac, ma avrebbero portato, con la loro relazione altamente instabile, un tasso di conflittualità che rese la vita impossibile a tutti.

I Fleetwood Mac, con il loro carico di endogamia, di dipendenze, di litigiosità e di vanità, sono la dimostrazione di come dal caos possano nascere ottime canzoni. E l’unica apparentemente sana di mente, l’unica che sapeva incanalare le energie creative di una band di primedonne era proprio lei. Anche McVie aveva i suoi fantasmi e le sue dipendenze, anche lei ha avuto una vita sentimentale travagliata ma, dopo il divorzio da John McVie, con cui è rimasta amica per tutta la vita, ha avuto (quasi sempre) l’accortezza di trovarsi mariti e fidanzati fuori della band.

Il patto delle streghe
Christine era nata nel 1943 in un villaggio chiamato Bouth, nel distretto dei laghi, nel nordest del Regno Unito, una zona di antica tradizione celtica, di maghi e di streghe. In un’intervista che diede alla Bbc nel 2017, per la serie Desert island discs, McVie descrive la sua famiglia: il padre era un violinista classico e la madre era un’insegnante ma soprattutto era una guaritrice. Un dono tenuto segreto e l’artista ricorda, da bambina, di essere stata guarita da una formula magica pronunciata dalla madre nel buio della sua camera. È stato il primo patto tra streghe della sua vita. Il secondo sarebbe stato quello con Stevie Nicks, un legame di sorellanza che avrebbe portato al successo e tenuto insieme il gruppo per decenni. Se all’interno dei Fleetwood Mac i matrimoni si facevano e si disfacevano, le alleanze tra maschi si deterioravano e trascendevano in risse, l’intesa femminile tra la fiammeggiante Stevie Nicks (anche lei affascinata dall’occulto e dalla magia celtica) e la saggia Christine McVie è rimasta salda ed è durata fino alla fine.

Negli anni è rimasta solida anche l’abilità cantautoriale di McVie che aveva il dono, quello davvero magico, della collaborazione e dell’intelligenza musicale: sapeva cosa poteva ottenere dalla chitarra di Buckingham, dal basso dell’ex marito McVie e dalla batteria di Mick Fleetwood, sapeva come armonizzare la sua voce duttile e scura con quella roca e piena di colori di Nicks. E quando scriveva da sola, tirava fuori canzoni memorabili. Una tra le tante: Songbird, tratta da Rumours, l’album di maggior successo dei Fleetwood Mac e uno dei dischi più venduti della storia del rock.

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Nel 1982, dopo il lungo tour legato all’album Mirage, i Fleetwood Mac decidono di prendersi una pausa. Tutti gli altri si dedicano a progetti solisti (soprattutto Stevie Nicks, con notevole successo) ma Christine McVie si ritira nella sua lussuosa villa di Los Angeles, una casa che era già appartenuta a Joan Collins e a Elton John. Era da poco finita la sua ultima complicata storia d’amore con Dennis Wilson dei Beach Boys e lei il pianoforte non voleva neanche toccarlo. In quella dimora hollywoodiana si era fatta anche costruire un pub inglese, per sentirsi più a casa. Lei stessa ammette, con la consueta asciuttezza, di essersi imbarcata nella produzione di un album solista per noia. Non ne poteva più di starsene senza far niente, tra una nuotata in piscina e un paio di pinte nel pub privato. L’alcol non è mai mancato nella vita dei Fleetwood Mac e neanche in quella di McVie, che ha candidamente ammesso che non avrebbe mai potuto scrivere Songbird “senza due tiri di coca e mezza bottiglia di champagne”.

Il lavoro sui pezzi del suo secondo album solista, intitolato Christine McVie (il primo era uscito nel 1970 a nome Christine Perfect e lei lo odiava), è cominciato nel 1983 ed è durato tre mesi. McVie non si sentiva pronta a lavorare da sola, era troppo abituata a collaborare, a comporre canzoni insieme a qualcun altro. Coca e champagne evidentemente non bastavano più a liberare le sue energie creative, così lei ha cominciato a scrivere con il chitarrista e cantautore Todd Sharp, noto anche per aver lanciato un suo marchio di amplificatori.

Con Sharp compone diversi pezzi pop rock, tutti decisamente piacevoli e rilassati, e sceglie come produttore Russ Titelman, che aveva già lavorato con Randy Newman, Ry Cooder e Chaka Khan. Forse c’è poca tensione in queste canzoni, manca l’elettricità del suo lavoro con i Fleetwood Mac, ma ci sono maestria e altissimo artigianato musicale: nel 1984 Christine McVie è all’apice della sua maturità di cantautrice e di strumentista. C’è la sua consueta timidezza: perfino nella foto di copertina appare di spalle, seduta a un pianoforte affacciato su una collina che potrebbe essere sia nelle Hollywood Hills sia nella nativa Cumbria, ma la sua autorevolezza è dimostrata dalla quantità di ospiti famosi che riesce a coinvolgere. Eric Clapton suona (meravigliosamente) in The challenge, Steve Winwood canta e suona le tastiere qua e là e in diversi pezzi si riaffacciano i vecchi compagni di strada che qui accantonano ogni protagonismo e accettano di lavorare a cottimo: Lindsey Buckingham alla chitarra e ai cori e Mick Fleetwood alla batteria. Alle tastiere (quelle che non suona la stessa McVie) c’era il musicista portoghese Eddy Quintela, che lei sposerà nel 1986. Mancava solo Stevie Nicks, che in quel periodo era alla clinica Betty Ford per disintossicarsi.

One in a million, cantata con Steve Winwood, mostra la solidità del canto blues di McVie e Ask anybody è un esempio di quale autrice sottile e ironica possa essere: “Chiedetelo a chiunque: vi diranno che sbaglio tutto, vi diranno che me ne devo andare”, ma lei ovviamente decide di restare e di andare a sbattere contro l’ennesima relazione sbagliata. Got a hold on me fu scelto come singolo di lancio per l’album ed è in effetti uno dei pezzi più stile Fleetwood Mac della raccolta, grazie alla presenza di Lindsey Buckingham ai cori e alla chitarra. Verso, bridge e ritornello, con le sue belle armonizzazioni vocali, hanno qualcosa di rinascimentale nel loro equilibrio. È una canzone soft rock californiana talmente canonica da sembrare stucchevole: eppure che leggerezza e che senso di vento fresco sul viso. The smile I live for è l’unico pezzo firmato solo da Christine McVie ed è anche il più tenero e intimo. Nonostante la produzione ipertrofica mantiene qualcosa di autentico e di prezioso.

Christine McVie è un album di soft rock maturo e gradevole. Non ha niente di rivoluzionario ma ci permette di capire, canzone dopo canzone, quanto McVie fosse il cemento che teneva insieme i Fleetwood Mac. Se può sembrare un disco un po’ seduto è perché lo è: rappresenta un momento di pace nella vita travagliata di una band. Anche il tour che accompagnava l’album era rilassato: amici fidati e, finalmente, piccoli teatri da raggiungere a piedi dall’albergo, senza limousine con vetri oscurati e altri lussi da rock star. In un’intervista del 1984 McVie descrive bene la stanchezza di quei tour infiniti: “Il tour di Tusk è durato un anno: e non importa se vai in posti esotici, perché la Thailandia è uguale a Chicago se le uniche cose che vedi sono l’hotel e l’arena in cui canti. Questi lunghi tour ti fanno sentire come essere sposati con quattro persone”. Anche la produzione anni ottanta del disco, così pulita e senza spigoli con quelle chitarre croccanti, quelle tastiere avvolgenti e quei bassi così nitidi, oggi ha un suo fascino. Quel tipo di produzione è il suono dei soldi che giravano nell’industria discografica statunitense: studi costosissimi, session men pagati come rockstar e vere rock star che facevano capolino in studio, si facevano un tiro di coca pagata dalla casa discografica e lasciavano lì un assolo di chitarra memorabile. È un suono che la mia generazione, cresciuta con post punk e new wave prima e hip hop e rap poi, ha imparato a odiare. Eppure, risentito oggi, è pieno di echi degli anni settanta e anche nei suoi momenti più facili, anzi proprio nel suoi momenti più facili, lascia la scia un po’ malinconica di un momento irripetibile nella storia del pop rock americano.

Christine McVie
Christine McVie
Warner Bros. Records, 1984

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