31 gennaio 2023 17:58

Il primo aprile del 1987, a una commemorazione dell’artista Andy Warhol che era morto il 22 febbraio, Lou Reed e John Cale tornarono a parlarsi dopo anni. Era dal 1968, anno di White light/White heat dei Velvet Underground, che i due non si vedevano. Erano successe molte cose nel frattempo: la controcultura era implosa così come l’arte di Andy Warhol si era ripiegata su se stessa. La New York dei primi anni sessanta, quella della pop art, degli happening, del cinema sperimentale e delle amfetamine spacciate per punture di vitamine non esisteva più.

Neanche le superstar della Factory esistevano più: quelle che non erano morte di overdose o che non si erano buttate dalla finestra si erano ritirate a vita privata. Rimanevano vive certe visoni profetiche di Warhol. Mtv, l’emittente via cavo con video musicali 24 ore su 24 senza alcun filo narrativo, sembrava aver sviluppato in senso commerciale l’estetica dei suoi invendibili film underground. Le prime interfacce grafiche degli home computer Amiga e Apple realizzavano un vecchio sogno di Andy: quello di diventare una macchina per produrre arte. E poi la cultura della celebrità, l’ossessione per la bellezza, per il denaro, per il lusso… gli anni ottanta potevano sembrare in tutto e per tutto un’invenzione di Warhol. Ma lui, proprio quando gli anni ottanta cominciavano a prendere forma (era sua la teoria che la vera estetica di un decennio si configurasse nella sua seconda metà), moriva in ospedale. Apparentemente per una banale operazione di cistifellea, in realtà per le complicazioni dovute alle vecchie ferite del 1968, quando la femminista radicale Valerie Solanas, una superstar ribelle, gli sparò addosso negli uffici della Factory.

Sia Lou Reed sia John Cale non vedevano Andy Warhol da anni. La loro vita e la loro carriera era andata avanti, come quella di altri sopravvissuti degli anni sessanta. Eppure, a quella commemorazione nella chiesa di St Patrick sulla Quinta strada, i due si fanno convincere dal pittore e regista Julian Schnabel a scrivere una sorta di requiem rock per Andy. Nasce così Songs for Drella, un ciclo di canzoni (quasi un liederkreis ottocentesco) che ricostruiscono la vita, il carattere e le convinzioni estetiche di Andy Warhol.

Molte canzoni sono cantate dal suo punto di vista e non sempre l’artista viene mostrato sotto una luce benevola. Il titolo stesso fa riferimento a un soprannome che a lui non era gradito: Drella (una crasi fra Dracula e Cinderella, Cenerentola) era il nomignolo con cui la superstar Ondine aveva deciso di chiamarlo. Dracula per il suo atteggiamento vampiresco e manipolatorio: Warhol si alimentava dell’energia e dell’esibizionismo delle sue superstar, che per compiacerlo erano pronte a tutto. E Cenerentola per la sua finta ingenuità, quella che durante le interviste lo faceva rispondere sempre con espressioni tipo “Wow!” o “Geee!”, facendo sempre la figura del finto tonto e del provincialotto scodellato nel bel mondo artistico di New York come Dorothy era stata sballottata dal Kansas nel paese di Oz.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

E proprio dalla provincia parte il ciclo di canzoni di Reed e Cale. In Smalltown è l’io narrante di Warhol che, su una saltellante canzoncina da vaudeville, dice di venire da Pittsburgh, una piccola città in cui l’unica certezza è quella di doversene andare. “Da Pittsburgh non può venire nessun Michelangelo”, canta Warhol con la voce di Lou Reed, e aggiunge: “mio padre lavorava in cantiere e io non ero portato per quella vita”. Smalltown descrive il giovane Andy come un gay grassottello con brutta pelle e brutti occhi che a New York si sarebbe trasformato in un misterioso pittore albino dagli occhi rosa, come quelli di coniglio: “È brutto essere strani in una piccola città”.

A New York invece la sua stranezza è diventata la sua forza, la sua corazza. In Open house è l’Andy newyorchese che parla, giovane artista commerciale di successo che però continua a vivere con sua madre, l’immigrata cecoslovacca Julia Warhola che controlla la sua vita e gli tiene i conti. Andy disegna pubblicità di scarpe per i grandi magazzini con uno stile un po’ rococò, molto svolazzante e femminile, perfetto per gli anni cinquanta. Julia cura la parte calligrafica delle sue illustrazioni.

La pop art è ancora un miraggio lontano, ma Andy è affascinato dai divi del cinema, dagli attori e dai bei ragazzi. È fan (o meglio stalker) dello scrittore Truman Capote, che pedina e di cui un giorno arriva a conoscere la madre. La casa di Andy e Julia Warhola è sempre piena di gente per il tè (“È una vecchia abitudine cecoslovacca che ho preso da mia madre”). Mi piace avere gente intorno, canta Andy/Lou “ma non baciatemi per salutarmi e non toccatemi”.

In canzoni come Work (che descrive lo stakanovismo di Andy), Trouble with classicists e Images, Songs for Drella diventa quasi un saggio di critica d’arte. Si descrivono nei dettagli le ossessioni artistiche di Warhol: la sua volontà prima e consapevolezza poi di fare piazza pulita dell’espressionismo astratto newyorchese, la sua idea tutt’altro che ingenua di pop art, una pratica che coscientemente confondeva i confini tra commercio ed espressione artistica. Viene descritta la sua ossessione per le immagini, derivata dalle riviste di cinema che ritagliava ossessivamente ma anche dalle icone su fondo oro che vedeva con la mamma quando lo portava a messa in una chiesa della comunità cecoslovacca. La Gold Marilyn del 1962, una delle sue prime opere compiutamente pop, unisce proprio questi due mondi ed è forse all’origine dell’uso che facciamo, molto spesso a sproposito, della parola “iconico” riferito a personaggi della cultura pop di oggi.

Songs for Drella però affonda il coltello anche in ferite per Reed e Cale ancora aperte: Warhol era spietato e manipolativo con i suoi collaboratori. S’infatuava di alcune persone, spesso molto belle e fragili, le usava e poi le dimenticava. Edie Sedgwick, la più sfolgorante delle sue superstar degli anni sessanta, non è mai nominata, ma il suo fantasma aleggia in canzoni come Faces and names e It wasn’t me. “Non è colpa mia”, dice Andy, se hai buttato la tua vita, se ti sei ammazzata, se ti sei bucata… era tutto dentro di te, hai fatto tutto da sola. In I Believe si parla di Valerie Solanas che prende l’ascensore della Factory, sale al quarto piano e, puntando la pistola contro Warhol, gli dice: “Andy non potrai più controllarmi”. La canzone la dipinge come una squilibrata senza arrivare in fondo alle motivazioni del suo gesto folle e disperato.

Andy è stato a un passo dalla morte per le ferite subite in quell’attentato, ma una volta uscito dall’ospedale ha preferito non denunciarla, condannandola a una vita peggiore di quella che avrebbe avuto in carcere: rinchiusa in vari istituti psichiatrici, imbottita di farmaci e sottoposta a elettroshock fino alla morte, avvenuta nel 1988, solo un anno dopo quella di Warhol. Solanas è stata l’unica vera radicale a uscire dalla scena della Factory e l’unica di quella corte dei miracoli che aveva capito che doveva ribellarsi. A qualunque costo. Lou Reed e John Cale sembrano avere un po’ di timore a specchiarsi anche nella sua storia, perché forse dimostrava quanto anche loro fossero stati, in fondo, acquiescenti e incapaci di ribellarsi al tiranno. Per approfondire c’è un bel libro di Nadia Busato, Factory girl (SEM 2022), che descrivendo la triste parabola della bella Edie Sedgwick la mette in parallelo con quella della non bella, ma decisamente più consapevole e radicale, Valerie Solanas.

Il ciclo si conclude con Hello it’s me e a cantare è finalmente Lou Reed stesso che smette di nascondersi dietro a Andy: la canzone è la telefonata che non gli ha mai fatto. Forse Warhol una telefonata un po’ se l’aspettava: era famoso per le ore trascorse al telefono con amici, ex amici o anche nemici. Era il suo modo preferito di comunicare, così disincarnato, a distanza. Lui odiava essere guardato negli occhi, più ancora di essere toccato. E adorava telefoni, segreterie telefoniche e registratori: tutti i suoi diari sono stati infatti sbobinati da audiocassette. Lou dice di sentire la sua mancanza, di sentire la mancanza del suo cervello, delle sue idee. “So che è un po’ tardi”, aggiunge. Però non gli risparmia un’ultima bordata: “Ho dei risentimenti che non possono essere risolti”, gli dice: “Mi hai colpito dove mi faceva più male e non ho riso. E i tuoi diari non sono un epitaffio degno di te”. La canzone però si chiude con una nota di dolcezza, proprio come una delle sue telefonate fiume notturne: “Buonanotte, Andy”. E addio.

Lou Reed, John Cale
Songs for Drella
Sire, 1990

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it