04 aprile 2023 15:48

Quando, nel marzo del 2003, i Cardigans escono con il loro quinto album, pubblico e critica hanno reazioni contrastanti. Da una parte la qualità dei pezzi di Long gone before daylight viene considerata molto alta, dall’altra molti giornalisti, soprattutto statunitensi, rimangono colpiti dall’improvvisa virata dark e depressiva del gruppo svedese.

Per molti, soprattutto al di là dell’oceano, i Cardigans sono semplicemente un buon gruppo pop. Vengono apprezzate le loro melodie irresistibili, la voce sexy e infantile della frontwoman Nina Persson e l’impeccabile pulizia della produzione. Dopo aver azzeccato una delle hit più memorabili e durature degli anni novanta, Lovefool, che era stata usata anche in una scena di Romeo+Juliet di Baz Luhrmann, i Cardigans hanno continuato a sfornare successi e Gran Turismo, un loro lavoro del 1998 più spostato sul soft rock elettronico, sembrava l’apice di una carriera dedicata alla ricerca della canzone pop perfetta.

Dopo Gran Turismo i Cardigans si fermano e si dedicano a diversi progetti solisti. Nina Persson fonda un nuovo gruppo chiamato A Camp attraverso il quale si sente libera di esplorare quei territori più oscuri che da sempre erano rimasti nascosti tra le pieghe del catalogo della sua band madre (per esempio in canzoni come Carnival, Sick and tired o Step on me). Del primo album degli A Camp, mi colpì la scelta di cantare Walking the cow, un pezzo del cantautore americano Daniel Johnston, un geniale e tormentato outsider non a caso adorato da Kurt Cobain, che per tutta la vita ha combattuto con emarginazione e disagio psichico. Se volete sapere qualcosa di più di Johnston consiglio il documentario The devil and Daniel Johnston di Jeff Feuerzeig.

La scelta di sporcarsi le mani con un personaggio così complicato fa capire quanto Nina Persson fosse alla ricerca di qualcosa. Ma soprattutto ci fa riflettere su quanto complesso sia questo pop scandinavo che il pubblico europeo e statunitense percepisce come innocuo e melodico senza volerne vedere gli aspetti più notturni e disturbanti. Aspetti che sono da sempre presenti nella musica scandinava, sia nella ricca tradizione folk sia nella più nobile e colta produzione liederistica.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

I testi delle canzoni di Long gone before daylight sono tutti scritti da una Nina Persson in stato di grazia che, dopo l’esperienza di A Camp, vuole scrollarsi di dosso l’immagine di starlet bionda. Le canzoni parlano di relazioni velenose, di violenza domestica, di prevaricazione e anche di solitudine, depressione e tendenze suicide. È un album crepuscolare, avvolto da una tenebra che ha anche qualcosa di rassicurante, perché offre la possibilità di guardarsi dentro. Anche con spietatezza se necessario. Long gone before daylight è un album disturbante ma anche in qualche modo accogliente.

Un nuovo suono
Il suono è completamente diverso da quello dei dischi precedenti dei Cardigans. Se Gran Turismo era uno scoppiettante album di pop rock elettronico pensato per le classifiche americane ed europee, Long gone before daylight è un lavoro cantautoriale, stilisticamente più vicino al country rock e al folk ma sempre squisitamente melodico e pop. L’arte svedese di confezionare ottime melodie viene impiegata in un modo diverso, più introspettivo e meno immediatamente seducente.

I Cardigans, fuori dalla Scandinavia, sono sempre stati pigramente accostati agli Abba che negli anni novanta avevano avuto uno spettacolare e pervasivo revival. E la copertina di Long gone before daylight in modo abbastanza obliquo ricorda, nei colori, nelle luci e nella scenografia, quella di The visitors, l’ultimo album degli Abba uscito nel 1981 (l’ultimo prima della loro reunion del 2021). È come se i Cardigans, con la foto di una festa tenuemente illuminata da candele, volessero ricollegarsi, visivamente, al più maturo, malinconico e decadente lavoro dei loro più famosi compatrioti. The visitors infatti era l’album degli Abba che conteneva le loro canzoni più negative e più pervase da quell’incertezza così tipica della musica pop dei tempi della guerra fredda: isolamento, solitudine, sfiducia nel futuro. Pezzi come Cassandra, When all is said and done e One of us sotto la glassa zuccherosa nascondono un cuore pessimista e morbosamente introspettivo ed erano quanto di più lontano da eurohit spensierate come Mamma mia!, Waterloo e Voulez-vous.

L’album si apre con gli accordi malinconici di Communication, una canzone che avrebbe potuto essere stata scritta da Michelangelo Antonioni. Persson canta di come si è intrufolata silenziosamente nella vita di un’altra persona credendo di amarla e di potersi fidare di lei: “Non sapevo come muoverti quindi ho provato a introdurmi in quei piccoli buchi nelle tue vene e finalmente ti ho visto”. Se questa è comunicazione, conclude amaramente, allora meglio niente: “Ho bisogno di te, tu mi vuoi ma non so come fare a connettermi, quindi mi disconnetto”. I piccoli buchi nelle vene fanno pensare all’amore per un tossicodipendente, come se la droga fosse l’unica cosa a tenerli uniti, ma Persson lascia volutamente la sua metafora molto vaga.

La similitudine in You’re the storm è invece chiarissima: la voce narrante della canzone è una donna che di fronte all’uomo che vuole conquistarla si offre come un paese inerme davanti alle truppe nemiche. Sembra di vedere quelle vecchie vignette dell’ottocento con la Francia-Marianna spogliata e umiliata da una Germania armata fino ai denti che le strappa i panni di dosso: “Se mi vuoi sono il tuo paese”, canta Nina Persson invitando il nemico a sfondare le sue linee di difesa, a colpirla senza pietà e a issare su di lei la sua bandiera vittoriosa: “Vieni e conquistami, sgancia le tue bombe, attraversa il mio confine e uccidi la tranquillità… tu sei l’uragano in cui io credo”. Se Youre the storm gioca con metafore e similitudini And then you kissed me dice le cose come stanno e descrive dall’interno una relazione violenta: “Blu, blu, blu e nero, il sangue rosso si appiccica come colla, il vero amore è crudele”. Tutta la canzone è giocata sull’alternanza tra il verbo colpire e il verbo baciare che arrivano a confondersi e diventano quasi sinonimi. Il testo di Persson è chiaramente basato su una canzone del 1962, già all’epoca controversa, intitolata He hit me (and it felt like a kiss), mi ha picchiata (e sembrava un bacio). Il pezzo era stato scritto da una coppia di marito e moglie (Gerry Goffin e la geniale cantautrice Carole King) sotto la guida del produttore Phil Spector, poi finito in carcere per aver sequestrato e tentato di uccidere la moglie Ronnie. La canzone, con il suo testo ferocemente maschilista e la produzione brutale di Phil Spector, fu cantato dalle Crystals, uno dei tanti girl group di successo dei primi anni sessanta. Nina Persson sembra ripartire proprio da lì, da una vecchia canzone pop che giustificava e romanticizzava la violenza domestica, la cui coautrice è una delle musiciste più illustri del pop statunitense. Il risultato è ambiguo e particolarmente disturbante. Lo era nel 2003 e lo è ancora di più vent’anni dopo.

L’album procede e Nina Persson continua a sminuirsi, anche se è in una delle canzoni pop più brillanti del repertorio dei Cardigans. In For what it’s worth canta: “Per quello che vale ti amo, e quello che è peggio è che ti amo davvero” e si scusa se usa una parolaccia come “amore” ma è solo perché non ne conosce altre; promette che farà la brava e che non farà scenate, basta che lui “torni nel suo letto e la faccia star bene”. Violenza domestica, incomunicabilità, dipendenza sessuale e affettiva, masochismo, ossessione… Non c’è aspetto delle relazioni sbagliate tra uomo e donna che Nina Persson non esplori in questo album che alterna schiaffoni e carezze anche per chi ascolta.

Le ultime canzoni sono più morbide e sembrano scivolare verso una sorta di oblio notturno. Lead me into the night ha l’andamento rallentato di un valzer country western e sarebbe una canzone dolceamara se non avessimo sentito i pezzi precedenti. Quando Persson, con voce rassegnata, canta: “Ho trovato una guida nella città della lussuria, una guida che mi porti nella notte, ti prego manda via la luce, anche se mia madre non capirà mai, io fuggo con lui dalla luce verso la notte”. Lead me into the night è una resa all’invasore, non si capisce se all’uomo sbagliato da cui non riesce a staccarsi o al male di vivere. L’album si chiude con un pezzo il cui titolo già non lascia scampo: 03:45: no sleep, “03:45: insonne”. La canzone è una delle melodie più dolci dell’album ma dipinge, con tratti crudi e diretti che non possono che essere scandinavi, il quadro di cosa sia la depressione, quella che ti spinge a non alzarti più dal letto anche se sei sveglio, con gli occhi sbarrati sul soffitto. La narratrice del pezzo ora è finalmente sola. Non c’è traccia di quella persona “che ormai è troppo tardi per chiamare” e si sente al sicuro, “sveglia insieme agli scarafaggi in un mondo che finalmente si è arreso”. È a quel punto che pronuncia qualcosa di simile a una preghiera, ma non è una preghiera per la salvezza è più una preghiera per l’oblio: “Se ora dio mi passasse il microfono per parlare direi mondo, stattene a letto e dormi in pace”.

Ascoltato vent’anni dopo Long gone before daylight è ancora più potente e spiazzante di quanto non lo fosse nel 2003. Negli ultimi anni il dibattito pubblico sulla violenza di genere e sul consenso si è evoluto enormemente e sentire canzoni pop come For what is worth e Then you kissed me, cantate da una donna che apparentemente accetta una relazione violenta, fa un certo effetto. D’altro canto però qui non ci sono ombre lunghe di produttori-padroni alla Phil Spector in vista.

Long gone before daylight ci fa riflettere su come oggi le popstar, in particolare se donne, sono tenute a essere dei modelli positivi e dei simboli granitici di empowerment femminile: Lana Del Rey è stata massacrata sui social e sui giornali per canzoni molto più blande di quelle scritte nel 2003 da Nina Persson. L’idea che una cantautrice possa avere la libertà di descriversi come vuole, anche in modo degradante, oggi sembra imperdonabile eppure, per quanto possa disturbarci, penso che autrici come Lana Del Rey e Nina Persson (ma anche Robyn, Tove Lo e via dicendo) abbiano tutto il diritto di raccontarsi come vogliono. E soprattutto, in un’epoca in cui qualunque tipo di esternazione artistica, specialmente femminile, viene considerata diaristica e autobiografica, le artiste devono conservare la loro libertà di abitare personaggi che non siano necessariamente loro stesse e che non siano necessariamente buoni o in cerca di comprensione o di riscatto.

I testi di Long gone before daylight ci disturbano perché Nina Persson non chiede il permesso a nessuno e soprattutto non chiede scusa: descrive relazioni violente, soffocanti e sbagliate nel dettaglio ma le descrive senza fare o farsi la morale. E in più le racconta con una voce dolce, usando il più subdolo e il più seducente dei mezzi: quell’immacolato senso della melodia che ha reso così universale il pop svedese. Ma poi, chi ha detto che la musica pop debba per forza essere rassicurante e raccontarci sempre quello che vogliamo sentirci dire?

The Cardigans
Long gone before daylight
Stockholm Records, 2003

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it