11 novembre 2020 14:42

Questo articolo è uscito sul numero 1384 di Internazionale.

Nelle elezioni presidenziali del 3 novembre era in gioco la democrazia degli Stati Uniti. La democrazia ha vinto, ed è stato un grande sollievo, ma il margine di questa vittoria non dev’essere sopravvalutato. Joe Biden sarà il 46° presidente degli Stati Uniti. La senatrice Kamala Harris, figlia di un nero giamaicano e di una donna di origini indiane, sarà la vicepresidente. Donald Trump, invece, sarà ricordato come il politico più cinico ad aver mai occupato la Casa Bianca. Ha continuato a mentire fino alla fine, sostenendo di aver vinto quando lo scrutinio era ancora in corso e poi dicendo che la presidenza gli era stata sottratta in modo irregolare, anche se non si è capito bene da chi. Sicuramente porterà avanti la sua strampalata causa nei tribunali e sui mezzi d’informazione di destra. Non ci sarebbe da stupirsi se incitasse la gente a ribellarsi per lui: gli ultimi quattro anni ci hanno insegnato che è capace di tutto.

La sua conferenza stampa del 4 novembre dalla Casa Bianca è stato uno spettacolo prevedibile e imbarazzante, che ha scandalizzato anche alcuni dei suoi alleati più vicini. In diretta televisiva, una persona instabile e con impulsi autoritari ha cercato in ogni modo di danneggiare uno dei sistemi democratici più antichi del mondo. “È una truffa ai danni del popolo americano”, ha tuonato, “una vergogna per il nostro paese”. “Abbiamo vinto noi”, ha dichiarato senza portare nessuna prova delle sue affermazioni.

Come sempre, Trump era pronto a mettere a repentaglio gli interessi e la stabilità del paese pur di soddisfare il suo ego e conservare il potere. La sera del 5 novembre ha ripetuto la sua patetica esibizione: nella sala stampa della Casa Bianca ha sostenuto (ancora una volta senza prove) di essere stato “imbrogliato” da un “sistema corrotto”. Leggendo da un foglio, ha detto che qualcuno stava “riducendo” le sue percentuali man mano che lo spoglio andava avanti, vaneggiando di funzionari disonesti, di una tubatura esplosa in Georgia e di “grandi cartoni” usati per coprire le finestre dei seggi. Le sue parole suonavano rabbiose e folli, e la sua voce tradiva la sconfitta. Nessun presidente degli Stati Uniti aveva mai pronunciato un discorso così pericoloso, e i leader del Partito repubblicano non sembravano intenzionati a prendere le distanze.

Donald Trump ha scatenato una guerra contro le istituzioni democratiche, ha trasformato la presidenza in un reality show in cui erano consentite accuse e prepotenze

In tutto questo Biden ha di fronte una sfida colossale. Se nelle prossime settimane riuscirà a superare gli attacchi giudiziari e retorici di Trump, il nuovo presidente comincerà il suo mandato in un paese spaccato, ancora più diviso di quanto abbiano mostrato le elezioni. Una nazione in cui metà della popolazione non riesce a capire l’altra metà. Biden dovrà anche affrontare una pandemia sempre più grave, un’economia disastrata, enormi ingiustizie razziali e una crisi climatica che milioni di persone si rifiutano di riconoscere.

Molti sostenitori di Biden avevano sperato in una vittoria più netta, magari con la conquista del Texas e dell’Ohio. Ma alla fine, con margini di vittoria molto ridotti in vari stati, Biden ha dovuto accontentarsi di battere Trump. Rispetto a Hillary Clinton, sconfitta nel 2016, l’ex vicepresidente ha conquistato il Michigan, il Wisconsin e la Pennsylvania, e ha portato a casa stati tradizionalmente conservatori come l’Arizona e la Georgia. È un dato cruciale. I sondaggi si sono rivelati inattendibili e hanno nuovamente sottovalutato il sostegno di cui gode il presidente uscente. Le previsioni di una grande “ondata democratica” capace di travolgere l’amministrazione Trump e cancellare il ricordo degli ultimi quattro anni si sono rivelate un’illusione. Ma la fine dell’era Trump segna comunque un momento decisivo della storia moderna degli Stati Uniti. Gli ultimi quattro anni hanno avuto conseguenze tragiche. Un altro mandato di Trump avrebbe causato danni irreparabili.

Durante il suo mandato Trump ha scatenato una guerra contro le istituzioni democratiche, con politiche basate sulla crudeltà, il fanatismo e le divisioni. Ha trasformato la presidenza in un reality show in cui erano consentite accuse terribili e compiaciute prepotenze di ogni tipo. Alla fine ha pagato per il modo in cui ha gestito la pandemia di covid-19. Il disprezzo mostrato verso medici e scienziati e il modo in cui si è opposto alle misure basilari contro la diffusione del virus hanno portato alla morte evitabile di decine di migliaia di statunitensi.

Probabilmente l’evento più emblematico della scelleratezza di Trump è stata la cerimonia alla Casa Bianca in cui il presidente ha annunciato la nomina della giudice Amy Coney Barrett alla corte suprema. A pochi giorni di distanza si è capito che quella cerimonia, in cui quasi nessuno indossava la mascherina e rispettava la distanza di sicurezza, era stato un evento superdiffusore.

Agli antipodi
La pandemia ha anche messo in luce le differenze caratteriali tra i due candidati alla presidenza. Per mesi Trump non ha mostrato né empatia né partecipazione. Durante i suoi comizi mostrava un atteggiamento tra il superficiale e l’indifferente, senza mai riconoscere la gravità della pandemia o esprimere sentimenti vagamente umani. “Siamo sulla buona strada!”, ha continuato a ripetere mentre il conto delle vittime aumentava. Per un breve momento, quando si è ammalato di covid-19, ha fatto finta di provare un briciolo di compassione per le persone che avevano perso la vita, si erano ammalate o avevano paura del virus. Ma quel momento è durato poco.

La morte e il lutto sono invece al centro della vita di Biden. Quando aveva trent’anni, nel 1972, ha perso la moglie e la figlia in un incidente d’auto, e nel 2015 il figlio Beau, morto per un cancro al cervello. Biden è un uomo con dei difetti evidenti (nella sua lunga carriera al senato ha fatto scelte discutibili e spesso usa una retorica confusa e prolissa), ma nella sua attività pubblica ha sempre dato prova di grande empatia. Questa qualità potrebbe aver contato più di qualsiasi posizione politica.

Donald Trump è incapace di accettare un trasferimento di potere ordinato, e sicuramente continuerà a dire che è vittima di un complotto. Se il passato è di qualche insegnamento, possiamo scommettere che paragonerà la sua presidenza a quella di Abraham Lincoln. È difficile immaginare che Trump partecipi alla cerimonia d’insediamento di Biden e si comporti con un minimo di eleganza. Sa cosa succederà nei prossimi mesi e non può sopportarlo: Biden e sua moglie Jill si trasferiranno alla Casa Bianca, mentre lui dovrà ritirarsi nella tenuta di Mar-a-Lago, in Florida, dove potrebbe passare i prossimi anni a difendersi dai creditori, dai tribunali, dall’agenzia delle entrate e dal giudizio della storia. Forse tenterà una nuova avventura televisiva, o addirittura si candiderà alle elezioni del 2024.

Ma anche se la carriera politica di Trump fosse finita, il trumpismo non scomparirà. Nel 2016 Trump ha individuato un vuoto di potere nel Partito repubblicano e ha rapidamente sbaragliato i candidati favoriti alle primarie, da Jeb Bush e Marco Rubio. Una volta diventato presidente ha preso definitivamente possesso del partito, piegando al suo volere chi in un primo momento gli si era opposto e allontanando tutti quelli che hanno messo in dubbio la sua autorità, il suo giudizio o la sua sanità mentale. I leader repubblicani hanno dimostrato di essere disposti a ignorare tutte le buffonate di Trump pur di ottenere quello che volevano: nuovi giudici conservatori e tasse più basse per le multinazionali e per i ricchi.

Alla fine Trump ha perso, ma non si può dire che gli statunitensi abbiano ripudiato in modo netto la sua presidenza. Decine di milioni di elettori hanno sposato le sue politiche illiberali, fanatiche e rancorose, o comunque sono disposti a tollerarle per una serie di motivi. Oggi il futuro del trumpismo è un punto interrogativo.

Lo stesso dubbio aleggia sulla presidenza Biden. L’ex vicepresidente ha cominciato la sua campagna elettorale da moderato, disposto a migliorare il sistema sanitario e a riportare gli Stati Uniti negli accordi internazionali, come quello nucleare con l’Iran e quello sul cambiamento climatico siglato a Parigi nel 2015. A differenza del suo principale avversario, Bernie Sanders, non ha mai usato parole come “rivoluzione” e “movimento” per descrivere il suo programma. Avendo trascorso più di quarant’anni a Washington, Biden si è candidato presentandosi come l’uomo del compromesso, una figura rassicurante che avrebbe garantito un ritorno a una forma indefinita di “normalità”.

Durante le primarie ha faticato a farsi strada. I suoi avversari lo hanno criticato per alcune scelte fatte in passato, per le gaffe e per l’età (quando entrerà alla Casa Bianca, Biden avrà 78 anni, più di quanti ne aveva Ronald Reagan alla fine del suo secondo mandato). In quella fase Biden è sembrato stanco e senza un obiettivo chiaro. Su BuzzFeed il giornalista Ben Smith aveva giustamente sottolineato che la campagna elettorale di Biden “sembrava avviata verso la catastrofe”.

Eppure dopo i risultati disastrosi nelle primarie in Iowa, New Hampshire e Nevada, Biden è andato avanti. Il suo messaggio politico, in sintesi, si basava sul fatto di essere stato vicepresidente durante il mandato di Obama e di essere il candidato con più possibilità di sconfiggere Trump. Biden ha vinto le primarie in South Carolina in parte grazie al sostegno del parlamentare afroamericano James Clyburn, alla sua vicinanza a Obama e al grande sostegno degli elettori neri. Da quel momento la sua campagna elettorale ha preso slancio. Biden ha continuato a scontrarsi con i rivali, soprattutto con Sanders, ma si capiva che tutti i candidati condividevano la stessa priorità: evitare un secondo mandato di Trump.

L’8 aprile, dopo una serie di sconfitte, Sanders ha sospeso la sua campagna elettorale. Definendo Biden “una persona per bene”, ha dichiarato di aver vinto il confronto sul cambiamento climatico, il salario minimo e molti altri temi. In un certo senso Sanders aveva ragione. Anche se non ha convertito Biden in un socialista, lo ha spinto a essere più ambizioso. Da quel momento Biden ha capito che tornare all’epoca di Obama non sarebbe stato sufficiente.

Gli eventi delle settimane successive hanno plasmato la candidatura di Biden ancora più delle primarie. Dopo aver ottenuto la nomination, ha subito dovuto affrontare due realtà: la risposta inadeguata dell’amministrazione Trump alla pandemia e le manifestazioni organizzate in tutto il paese dal movimento Black lives matter, innescate dall’omicidio di George Floyd a Minneapolis e dal razzismo sistemico. Biden ha capito che per essere all’altezza delle sfide che si presentavano al paese avrebbe dovuto agire con la stessa prontezza di Obama, che nel 2009 era entrato in carica durante la crisi economica. A un certo punto l’ex vicepresidente ha cominciato a dire che una volta alla Casa Bianca si sarebbe ispirato a Franklin Delano Roosevelt, il presidente che negli anni trenta portò il paese fuori dalla crisi economica e sociale.

Alla fine di ottobre Biden ha parlato da Warm Springs, la città della Georgia dove Roosevelt si trasferiva quando doveva sottoporsi alle cure per la poliomielite. In quell’occasione ha messo l’accento sulla necessità di guarire le ferite del paese: “Viviamo una serie di crisi dolorose di portata storica: un virus pericoloso, le difficoltà economiche e le discriminazioni razziali. Una sola di queste crisi sarebbe stata sufficiente a scuotere la nazione”. Ha promesso, in un certo senso, di andare oltre il suo istinto centrista, promettendo di costruire un’ampia coalizione e di agire con compassione e determinazione per gestire l’emergenza sanitaria, la crisi economica e gli effetti catastrofici del cambiamento climatico. “Dio e la storia ci hanno portato a questo momento e a questa missione. La Bibbia ci dice che esiste un tempo per distruggere e uno per costruire. Questo è il momento di costruire, di guarire”.

Per ricostruire la fiducia nel processo democratico, Biden dovrà fare in modo che i cittadini tornino a fidarsi del governo

Biden avrà successo se saprà mantenere quella promessa. Il suo destino politico e quello degli Stati Uniti dipendono dalla sua capacità di unire un paese radicalmente diviso e contemporaneamente di affrontare quelle crisi con l’ambizione di Roosevelt. Di sicuro il senato non gli renderà la vita facile. Biden incontrerà la stessa resistenza politica e ideologica che ha dovuto affrontare Obama.

Dovrà risanare le istituzioni e riaffermare i valori democratici e liberali. Le agenzie d’intelligence statunitensi hanno confermato che durante la campagna elettorale del 2016 il presidente russo Vladimir Putin ha cercato di favorire Trump, spinto da un’antipatia di lunga data per Hillary Clinton. Gli storici e gli esperti di spionaggio informatico continueranno a discutere sulla portata e gli effetti di questa ingerenza, ma non è difficile capire perché Putin preferisse vedere Trump alla Casa Bianca. Il presidente russo sperava di liberarsi dell’ingerenza degli Stati Uniti in Ucraina e da quella della Nato negli stati baltici e in Europa centrale e orientale. Finché gli Stati Uniti fossero rimasti impantanati in un conflitto interno e il presidente avesse rotto le alleanze internazionali nate dopo la seconda guerra mondiale, Putin sarebbe stato contento. Il Cremlino considera ipocrita la pretesa di Washington di avere un’autorità morale sul palcoscenico mondiale, soprattutto dopo le ultime avventure militari di Washington in Medio Oriente. “L’idea liberale non ha più senso”, ha dichiarato nel 2019 Putin al Financial Times. La vittoria di Trump sembrava una conferma delle idee del presidente russo.

La pandemia ha mostrato i costi umani pagati dagli stati che non garantiscono ai loro cittadini una rete di sicurezza sociale e un accesso universale alle cure sanitarie. Ma anche quanto è importante avere dei leader competenti. Angela Merkel in Germania e Jacinda Ardern in Nuova Zelanda sono state un esempio per il modo in cui hanno comunicato con la popolazione e hanno agito con fermezza per contenere il virus, affidandosi alle prove scientifiche e a valutazioni razionali. Il comportamento di Trump, invece, ha ricordato il negazionismo e lo stile dispotico del presidente brasiliano Jair Bolsonaro.

Per ricostruire la fiducia nel processo democratico, Biden dovrà fare in modo che i cittadini tornino a fidarsi del governo. Dovrà dare spazio agli scienziati e agli esperti dei centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, allontanare i funzionari inaffidabili che lavorano nel dipartimento di giustizia e i lobbisti dell’industria del petrolio che compromettono gli sforzi sui temi ambientali.

Trump si è scagliato molte volte contro le persone più competenti, come l’epidemiologo Anthony Fauci, minacciando di licenziarle. Ha inveito contro lo “stato profondo”. Ha cancellato una serie di regolamenti e ostacolato il lavoro dei funzionari pubblici. In questo senso è incoraggiante che Biden abbia promesso di “mettere fine al teatrino politico e alla disinformazione deliberata” fin dal suo primo giorno da presidente, “mettendo al centro” della sua amministrazione “gli scienziati e gli esperti di salute pubblica”.

Il nuovo presidente dovrà far capire agli statunitensi che la competenza è essenziale in tutti gli ambiti dell’attività di governo, dai tribunali alla sanità, dalle scienze ambientali alla diplomazia, dalla difesa all’economia. Infine, per risanare la democrazia statunitense dovrà avviare una riforma del sistema elettorale, che è obsoleto e iniquo.

La vittoria di Biden è il momento di fare un bilancio. Altri quattro anni di presidenza di Trump avrebbero aggravato la situazione sanitaria e compromesso la battaglia contro la catastrofe climatica. Il presidente uscente, un uomo con istinti autoritari, avrebbe continuato a circondarsi di consulenti disposti a eseguire ogni suo ordine, e avrebbe attaccato ancora i mezzi d’informazione e la verità stessa.

Trump non ha mai dato l’impressione di capire la portata del danno politico e spirituale che stava infliggendo agli Stati Uniti. Anche perché non gli interessava. Concepiva la presidenza come uno spettacolo in cui lui era il protagonista e che tutti dovevano guardare. Compresi nel prezzo c’erano una grande casa, un corteo di automobili, un aereo fantastico, opportunità imprenditoriali infinite e soprattutto l’attenzione costante di giornali, tv e internet. Alla fine della campagna elettorale, durante un comizio a Lehigh Valley, in Pennsylvania, Trump ha osservato un autotreno parcheggiato poco lontano. “Pensate che potrei mettermi al volante e andare via?”, ha chiesto con un ghigno. “Mi piacerebbe tanto svignarmela. Andarmene via da qui. Ho avuto una vita incredibile. La mia vita è stata spettacolare”. Tutto, nella sua mente, ruotava attorno a lui. Fino alla fine.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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