27 novembre 2020 16:07

“In questo mondo ci sono solo tre tipi di persone”, spiega Mamaw, la saggia matriarca del film Elegia americana, diretto da Ron Howard. “Ci sono i Terminator buoni, i Terminator cattivi e i Terminator neutri”. Riferendosi ai film d’azione con Arnold Schwarzenegger, la donna (interpretata dall’attrice Glenn Close) cerca di convincere il suo sensibile nipote J.D. Vance (Gabriel Basso) a vivere in modo virtuoso. Mi dispiace correggere Mamaw, ma sono costretto a farlo: non esistono Terminator neutri. I cyborg sono creati per proteggere o per distruggere. Non riesco a immaginare cosa potrebbe fare un Terminator neutro. Stare seduto su una sedia, immobile e scintillante?

Naturalmente Mamaw ha ogni diritto di avere pessime idee sul cinema. Ma il monologo in questione è l’esempio perfetto delle forzature che ricorrono in tutto il film, un adattamento della biografia pubblicata da Vance nel 2016. Elegia americana è disponibile su Netflix dal 24 novembre. Quando il libro è uscito nelle librerie, la storia di Vance è stata celebrata come uno scorcio su una frangia spesso trascurata degli Stati Uniti: i bianchi della classe operaia che vivono nella regione degli Appalachi e del midwest, gli stessi che alle elezioni del 2016 furono decisivi per la vittoria di Donald Trump alle presidenziali. Definito da alcuni un “traduttore della rabbia”, citato da Oprah Winfrey e Hillary Clinton, Vance ha raccontato la sua infanzia segnata dalla povertà, da una madre eroinomane e dalla tenacia con cui è riuscito a farsi strada fino ad arrivare alla facoltà di legge di Yale. Il libro è stato pubblicato in un momento propizio e ha offerto una visione cupa ma onesta delle comunità colpite da tossicodipendenza e povertà.

Da allora il libro, intitolato Hillbilly elegy, è stato esaminato, messo in dubbio e sviscerato in ogni modo. Il racconto si concentra sulle virtù del lavoro e della perseveranza e su una generica critica dello stato assistenziale. Vance sembra poco interessato all’analisi dei problemi strutturali e delle dinamiche più profonde. Adattando il libro, Howard e la sceneggiatrice Vanessa Taylor si sono spinti ancora più in là, privando il testo di qualsiasi elemento che potesse risultare vagamente controverso o tagliente. Il film è un prodotto impacchettato per gli Oscar che racconta il trionfo di un individuo sulle difficoltà della vita, destinato a concludersi con un’epigrafe edificante. Ed è anche uno dei peggiori film dell’anno. Imbottito di stelle del cinema e monologhi strappalacrime, somiglia a un Terminator neutro: tirato a lucido e inerte.

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Howard, di cui spesso ho apprezzato il lavoro, è abituato a girare film che raccontano storie reali (Apollo 13, A beautiful mind, Cinderella man e Rush, tra gli altri). Ma di solito le sue storie hanno un elemento centrale avvincente, come il caos spaziale dell’Apollo 13 o le sofferenze del pilota di Formula 1 Niki Lauda. Nel libro, invece, Vance presentava la sua vicenda personale come una storia estremamente comune. Il percorso del protagonista è coinvolgente, ma fa comunque parte di un tessuto sociale in cui secondo l’autore un’intera generazione di statunitensi è stata abbandonata.

Forse questo tema era inadatto a un film lungo due ore, o magari Howard e Taylor erano poco interessati all’analisi sociopolitica di Vance. Il risultato è un lavoro che ricorre alla più scontata narrazione hollywoodiana e finisce per essere più lineare di un episodio della serie Terminator. J.D. vive con la madre Beverly (Amy Adams) nella città operaia di Middletown, in Ohio (anche se la famiglia viene dal Kentucky orientale). Amorevole e gentile a tratti, il più delle volte, però, Beverly si comporta in modo violento e irresponsabile, schiacciata dal peso della sua dipendenza e della vita da madre single. Con grande determinazione e con l’aiuto della nonna carismatica, alla fine J.D. riesce a laurearsi in legge e ad avere successo.

Il film non contiene grandi idee, e per compensare una trama lineare si affida alla recitazione sopra le righe, come dimostrano le tirate di Mamaw sulla cultura popolare e il comportamento estremo di Beverly (a un certo punto la donna minaccia di lanciare il suo furgone contromano sulla strada, con J.D. all’interno). L’interpretazione di Close tende verso l’imbarazzante. Il suo personaggio, con indosso una parrucca elettrizzata e una serie di felpe abbondanti, esplode costantemente in raffiche di luoghi comuni urlati verso l’obiettivo della telecamera, tra imprecazioni varie. Il lavoro di Adams è calibrato in modo inefficace e diventa una grossolana pantomima della sofferenza, con vari monologhi strillati al cielo, come se il pubblico potesse cogliere soltanto il dolore espresso al massimo volume.

Dato che J.D. ha un carattere tranquillo, il film esagera tutto ciò che circonda il protagonista. Elegia americana mostra un ragazzo trattato come un alieno dall’ambiente elitario di Yale. In una scena particolarmente sconfortante, la rivelazione delle origini povere di J.D. suscita un silenzio tombale durante una cena raffinata, suggerendo che i professori di diritto non avessero mai incontrato un rappresentante della classe operaia in tutta la loro vita. Ansioso di mostrare le sue credenziali intellettuali e terrorizzato all’idea di fare un passo falso, J.D. sgattaiola via per chiamare la sua ragazza Usha (Freida Pinto) e chiederle quali posate usare per le varie portate.

Come ha sottolineato Alissa Wilkinson di Vox, nel libro di Vance lo scontro culturale tra i due mondi non è così evidente. Al contrario, l’autore racconta che le sue origini povere incuriosivano i suoi amici a Yale e lo hanno aiutato a emergere, e di non aver mai voluto nascondere il suo passato per vergogna. Ma l’adattamento cinematografico non può soffermarsi su queste sfumature. Non mi stupisce che gli autori di Elegia americana abbiano avuto bisogno di scene immaginarie e conflittuali per creare un contrasto narrativo. Il problema è che alcuni spettatori osserveranno quelle scene e penseranno che raccontino la realtà di certe sfere sociali. Il film tende una trappola a chiunque voglia analizzarlo: c’è la tentazione di considerare alcuni piccoli momenti come un commento spietato alla realtà sociale, ma in realtà il film non ha grandi ambizioni.

Per avere un senso, il film avrebbe dovuto mostrare esseri umani, non vignette. Elegia americana, dopo tutto, racconta le storie di persone reali che sono ancora vive. Nei titoli di coda queste persone vengono mostrate in fotografia, come a sottolineare il lavoro svolto per far somigliare gli attori ai personaggi del libro. Allora è giusto fare i complimenti al costumista che ha trovato gli occhiali giganti perfetti da mettere sul naso di Mamaw e al parrucchiere che ha riprodotto il groviglio di capelli sulla testa di Adams. Ma il film di Howard, alla fine, non è altro che un’istantanea sensazionalista ancora meno autentica degli articoli d’opinione scritti sulla scia della pubblicazione del libro di Vance, nel 2016. Per Hollywood Vance è solo l’ennesimo eroe banale che supera avversità altrettanto banali.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sull’Atlantic.

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