09 maggio 2017 13:11

Di tutte le parole che una volta servivano a definirsi di sinistra, ne è rimasta una sola ancora in arcione: progressista. Poiché ogni altra etichetta è sbiadita o usurata o demonizzata, il vocabolo si è gonfiato a più non posso per accogliere tutto ciò che non ha ormai contenitori politicamente accattivanti. È accaduto anche, e forse soprattutto, per via della governabilità.

Abbiamo oggi un’area progressista che, collocata intorno a un tavolino idealmente posto al centro, somma o sottrae frammenti di destra e di sinistra alla ricerca dei numeri per tirare avanti. Il risultato è un gran calderone di interessi e di culture tenuti insieme solo dall’opposizione a un ossimoro: l’avanzata del regresso. Cosa che va mutando “progressista”, malgrado lo slancio di cui è depositaria la parola, in un ennesimo segnale di scarsissimo dinamismo politico: rimanda a formazioni così eterogenee, che appena accennano ad avanzare rischiano di rompersi minando le stesse democrazie, non più sinonimo di magnifiche sorti e progressive ma sedi di rissoso arroccamento.

Il tutto mentre masse sempre più ampie considerano “vero progresso” un governo robusto guidato da un uomo o una donna robusti, di ipnotica prestanza mediatica, in grado di suonarle a chiunque non li lasci manovrare. A volte, quando regresso e progresso si affrontano, si distingue orrendamente il dietro ma l’avanti no.

Questa rubrica è stata pubblicata il 5 maggio 2017 a pagina 12 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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