21 marzo 2018 16:25

Dell’emigrato ci preoccupa l’arrivo e raramente ci sforziamo di immaginare quanto è stata tormentosa la decisione della partenza. Noi fortunati conosciamo il turismo, il viaggio di lavoro, due settimane e poi si torna in patria. Ma sentirsi costretti a emigrare è altro.

Mettiamoci nella testa di chi, in patria, si vede intorno una condizione insopportabile e ogni giorno fa mille ipotesi contraddittorie. Resto e mi ammazzano. Resto e non ho da mangiare né per me né per la mia famiglia. Resto e non ho più un tetto, mi prendono la moglie, i figli, mi costringono a dire ciò che non voglio dire. Parto allora ma per andare dove, in quale clima, con quali mezzi, esprimendomi in quale lingua, proponendomi per quali lavori, offrendo quali competenze? E se non fosse necessario partire? Chi dice che le cose non stanno per cambiare? Sto prendendo un abbaglio?

Mi sto immaginando pericoli che riguardano altri e non me? Forse ciò che nel mio paese è in atto o si sta preparando è assai meno di ciò che mi aspetta altrove: perché allora finire straniero in un paese che non mi vuole? È meglio restare qui, dove sono nato, e morire in una terra che è mia, o perdere la vita in un viaggio interminabile, per mare, in una terra sconosciuta, nella miseria e nella degradazione? Leggiamo, informiamoci. Prima della condizione di emigrato, c’è da sempre l’angoscia di queste domande.

Questa rubrica è stata pubblicata il 16 marzo 2018 a pagina 16 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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