16 ottobre 2018 17:03

Un pomeriggio, molto tempo fa, giocavamo a nascondino. Eravamo, noi ragazzini, tutti intorno agli otto anni, tranne un bambino che ne aveva uno e mezzo e ci veniva dietro convinto di giocare con noi. Poiché ci infastidiva, suo fratello a un certo punto lo ha mandato dietro una tenda trasparente, gli ha detto: tu nasconditi lì. Dopodiché è cominciato il gioco vero.

Io mi sono trovato un nascondiglio non so più dove, ero bravo a nascondermi. L’unica cosa che ricordo è che dal posto dove mi ero ficcato vedevo la forma scura del bambino. Era prigioniero della tenda, agitava le braccia, stava provando senza successo a trovare una via d’uscita. Mi sono sentito di colpo al suo posto, è la prima memoria certa che ho dei processi di immedesimazione. Ne ho avvertito il terrore, gli ho attribuito difficoltà di respirazione, ma intanto giocare a nascondino mi piaceva, il mio nascondiglio era buono, non volevo farmi trovare. Sono volati gli attimi, il bambino ora piagnucolava. Sicuramente ho pensato: devo tirarlo fuori, gli manca l’aria, morirà di paura.

Ma altrettanto sicuramente mi sono detto: sta rovinando il gioco, se esco mi scoprono, peggio per lui, lì dietro ce l’ha messo suo fratello, mica io. Ora non voglio dire come è andata a finire, non mi va. Preferisco fermarmi qui, nel punto in cui sentire nel nostro corpo l’angoscia di un altro minaccia di guastarci la festa.

Questa rubrica è uscita il 12 ottobre 2018 nel numero 1277 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati

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