26 febbraio 2019 17:22

Il cambiamento è un gioco di prestigio. Nella nota in appendice a Nondimanco (Adelphi 2018), un bel libro di Carlo Ginzburg, si trovano accostate in maniera del tutto nuova due formule antitetiche. La prima compare nei Discorsi di Machiavelli: quando si dà nuova forma allo stato di una città, bisogna conservare l’ombra almeno dei modi d’essere del passato. La seconda è di Tomasi di Lampedusa e la pronuncia Tancredi nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto resti com’è, bisogna che tutto cambi”.

Colpisce che, pur rovesciando Lampedusa la prescrizione di Machiavelli nel suo contrario, resiste l’idea, anch’essa machiavellica, che il cambiamento esige la gestione avveduta delle apparenze. Perché le cose cambino, dice Machiavelli, bisogna dare l’impressione che non tutto cambi. Perché niente cambi, dice Tomasi di Lampedusa, bisogna dare l’impressione che tutto cambi. Sia il buon esito della rivoluzione sia quello della conservazione sono insomma fondati su una sorta di prestidigitazione. Se il mago non possiede quest’arte, nessun gioco che abbia a che fare col cambiamento riesce.

I maghetti di turno oggi sembrano bravi con le apparenze, stanno sempre in video a nascondere esibendo, a esibire nascondendo. Eppure, durante i loro esercizi illusionistici, viene sempre più in mente la domanda che i cambiamenti felici non dovrebbero suscitare: stiamo cambiando in peggio?

Questo articolo è uscito nel numero 1295 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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