09 febbraio 2017 14:33

Marie e Lemar (i nomi sono di fantasia) sono fuggiti dal Belgio quando hanno capito che la polizia non li avrebbe lasciati in pace. Un paio di settimane prima l’avvocato di Lemar li aveva avvertiti: anche l’ultimo ricorso nella procedura di asilo era stato respinto. Per le autorità belghe, il ragazzo doveva tornare in Afghanistan, volente o nolente. Marie, che lo aveva accolto in casa tre anni prima e ormai lo considerava un figlio, non si capacitava: il dossier era solido, Lemar non solo proveniva da un paese in guerra ma apparteneva a una minoranza etnica perseguitata, gli hazara. Volevano mandarlo a morire?

La prima volta che la polizia si è presentata, Lemar era solo in casa. Attento a non farsi vedere, ha sbirciato dalle persiane che Marie, prima di uscire, come presentendo l’inizio della caccia all’uomo, gli aveva consigliato di abbassare. Lemar ha visto le uniformi e non ha fiatato. Nel frattempo una vicina aveva telefonato a Marie: “Lo stanno cercando”. Due ore dopo un’altra vicina l’ha chiamata per dirle che aveva visto passare di nuovo un’auto della polizia. A quel punto il padre di Marie è andato a prendere Lemar e l’ha portato a casa sua.

La settimana seguente gli agenti si sono ripresentati. Ha aperto lo studente che affittava una stanza da Marie, dicendo di non sapere dove fosse Lemar. “Non gli dica che lo stiamo cercando, ma quando torna ci avverta subito”, gli hanno intimato gli agenti. Quella sera Marie ha notato un furgone bianco e azzurro appostato in fondo alla strada. Aveva già deciso di portare Lemar all’estero, nel paese di origine dei suoi genitori, dove aveva una casa e dei parenti a cui avrebbe potuto affidare il ragazzo.

Se il Belgio non voleva accoglierlo, ci avrebbe pensato la sua famiglia. Ma ogni minuto passato in quel paese esponeva Lemar al rischio di essere arrestato ed espulso. Bisognava partire subito. La mattina seguente Marie ha caricato l’auto, è passata a prendere il ragazzo e insieme sono scappati, come due ricercati.

La lotteria del sistema di asilo
La storia di Marie e Lemar riassume tutta l’ingiustizia e l’assurdità delle politiche di asilo europee, politiche che hanno radici vecchie di decenni e che oggi si snodano in spirali sempre più intricate e letali. Sono più di quindici anni che gli afgani in fuga dalla guerra, dalla violenza e, per alcuni di loro, dalle discriminazioni etniche e religiose arrivano in Europa convinti di trovarvi protezione, e da più di quindici anni sono trattati come numeri da contenere, a prescindere dalla gravità della situazione nel loro paese di origine. Questo non significa che nessuno abbia ricevuto una qualche forma di protezione. Significa però che la protezione è concessa in modo arbitrario, dettata dal contesto politico nazionale ed europeo più che da una valutazione seria e indipendente dei rischi a cui sarebbe esposta la persona tornando in Afghanistan.

Per le autorità belghe Lemar era di troppo e così, per giustificare il rifiuto della sua richiesta di asilo, l’hanno accusato di essere un bugiardo

Solo così si spiega l’evoluzione dei tassi di riconoscimento nelle richieste di asilo registrate nei vari paesi europei. Tra il 1998 e il 2013 questo tasso è salito dal 34 al 67 per cento in Germania, precipitato dal 95 al 14 per cento nel Regno Unito e schizzato dal 16 al 98 per cento in Austria. Tra il 2015 e il 2016 invece l’evoluzione è stata più omogenea, almeno in Germania e in Austria, dove il tasso è sceso rispettivamente dal 72,2 al 55,8 per cento e dal 74,8 al 56 per cento (i dati per il 2016 per il Regno Unito non sono ancora disponibili). In poche parole, la politica comune europea di asilo ha cominciato a funzionare, ma a scapito dei richiedenti asilo, perché il principio comune su cui si fonda è: “I profughi afgani sono troppi”.

Per le autorità belghe Lemar era di troppo, e così, per giustificare il rifiuto della sua richiesta di asilo, lo hanno accusato di essere un bugiardo. A quest’accusa Lemar ha risposto in una lettera aperta. “Mi avete fatto mille domande e ogni volta ho risposto facendo del mio meglio, e in ogni caso con la massima onestà”, scrive. “Ma le vostre domande erano spesso difficili, per non dire impossibili. ‘Quali sono le province limitrofe alla sua provincia? Qual è il capoluogo della sua provincia? Qual è il calendario afgano?’. A queste domande, è vero, non ho saputo rispondere, e credo che nessun pastore analfabeta avrebbe saputo rispondere. La mia audizione si è svolta quando non avevo nemmeno diciott’anni, senza avvocato, in presenza di un interprete che parlava il dari, una delle lingue ufficiali dell’Afghanistan. Io parlo l’hazaragi, che è un dialetto abbastanza lontano dal dari, che non parlo molto bene. È un po’ come se interrogaste una persona che parla il vallone con un interprete che parla francese. Ci saranno sicuramente degli errori. In realtà io penso che a voi non interessi sentire la mia vera storia. Ma dovete sapere, e tutti i miei amici devono sapere, che non sono un bugiardo, che non ho assolutamente nulla da nascondere”.

In Belgio Lemar ha imparato a leggere e a scrivere. Aveva anche trovato un lavoro e, cosa importantissima, era circondato da persone pronte ad aiutarlo a costo di infrangere la legge. Così è scampato alla disperazione e al rimpatrio. Non tutti hanno la sua fortuna. Pochi giorni fa un altro giovane afgano, Ali Noori, si è tolto la vita in Svezia. La sua richiesta di asilo era stata respinta e temeva di essere espulso. Aveva sedici anni.

I charter della vergogna
Come spiegavo nella prima parte di questo articolo, negli ultimi anni diversi stati dell’Unione europea hanno stretto accordi bilaterali con l’Afghanistan per facilitare il rimpatrio dei richiedenti asilo respinti, sia su voli commerciali sia, se l’espulsione è collettiva, su voli charter. Il 2 ottobre 2016, dietro l’impulso della Germania, anche l’Unione europea ha firmato un’intesa sui rimpatri con il governo di Kabul. La prima operazione organizzata nel quadro della Joint way forward on migration issues (un’espulsione collettiva dalla Svezia e dalla Norvegia) si è svolta il 12 dicembre 2016. La Germania, che ha firmato l’intesa bilaterale a margine della firma della Joint way forward, ha già organizzato due voli charter verso Kabul, il 13 dicembre e il 25 gennaio.

Su quei voli, tra le persone espulse c’erano anche dei minorenni. Gli afgani sono la principale nazionalità tra i minori non accompagnati che arrivano in Europa (nel 2015 erano 45.300, il 51 per cento). Tra il 2011 e il 2014 l’Unione europea ha finanziato un progetto pilota chiamato Erpum (European return platform for unaccompanied minors) nel tentativo di mettere a punto un sistema efficace di rimpatrio dei minori non accompagnati. Il progetto Erpum è fallito, eppure l’idea è stata ripresentata tale e quale nella Joint way forward.

Richiedenti asilo afgani nell’hangar dell’ex aeroporto di Tempelhof, a Berlino, l’11 febbraio 2016. (Sean Gallup, Getty Images)

Germania, Svezia, Norvegia e Regno Unito, i paesi che eseguono più rimpatri verso l’Afghanistan, sono anche quelli dove le proteste sono più accese: manifestazioni in aeroporto (a patto di riuscire a scoprire per tempo quando parte il volo e da quale aeroporto), raduni, lettere e petizioni a sostegno di una persona o di una famiglia minacciate di espulsione.

Ma solo chi si è già costruito una rete di contatti e affetti nello stato membro dove ha chiesto l’asilo, senza ottenerlo, può sperare in una mobilitazione. Per esempio Bashir Naderi, arrivato a dieci anni nel Regno Unito. Oggi ha vent’anni e un perfetto accento gallese (tanto che la Bbc lo presenta come “a Cardiff man”). Insieme alla sua ragazza Nicole ha lanciato una petizione che ha raccolto quattordicimila firme. Il 27 gennaio il ministero dell’interno gli ha comunque negato il permesso di soggiorno. L’avvocato ha fatto appello, ma la polizia potrebbe andare ad arrestare Bashir da un momento all’altro.

Resistenza esemplare in Belgio
A mobilitarsi contro le espulsioni in Afghanistan non sono solo i cittadini comunitari e solidali. Anche gli afgani, che si considerano tutti rifugiati, indipendentemente dallo status ottenuto, sono numerosi a scendere in campo. In Belgio hanno portato avanti una lotta lunga ed esemplare. Nel 2003, poco dopo l’adozione del primo piano europeo per i rimpatri in Afghanistan, un migliaio di richiedenti asilo respinti ricevette un ordine di lasciare il territorio. In centinaia occuparono la chiesa di Sainte-Croix, a Bruxelles, e alcuni di loro cominciarono uno sciopero della fame. Il ministro dell’interno di allora, Patrick Dewael, concesse un permesso di soggiorno provvisorio ad alcuni di loro. Ma era una soluzione temporanea e parziale, e già nel 2004 gli afgani ripresero la battaglia.

Negli anni la loro lotta ha conosciuto varie fasi, intrecciandosi alle rivendicazioni più ampie del movimento dei sans-papiers. Nel 2013 la mobilitazione ha raggiunto il culmine. Riuniti in un collettivo che andava oltre le loro differenze etniche e religiose, sostenuti da un ampio movimento cittadino, centinaia di uomini, donne e bambini afgani hanno protestato quotidianamente, per mesi, affrontando anche manganelli, cani e lacrimogeni, per ottenere una moratoria sulle espulsioni e un permesso di soggiorno fintanto che il loro paese fosse stato in guerra. Anche se non sono riusciti a raggiungere tutti gli obiettivi prefissati, il loro rimane un esempio importante di autorganizzazione da parte di chi vive sulla sua pelle le disastrose politiche di asilo europee.

Illuminati e determinati: gli attivisti hazara
Oggi gli afgani più impegnati nella denuncia di queste politiche sono gli hazara, che formano la terza etnia dell’Afghanistan e nel loro paese di origine sono oggetto di discriminazioni e violenze da secoli. Se l’Afghanistan non è un luogo sicuro per nessuno, come dimostrano i continui attentati nella capitale (definita invece sicura dagli stati europei), per gli hazara è doppiamente pericoloso. Lo ricorda sul sito del World hazara council il professore William Maley, osservando che è “impossibile definire un caso isolato” l’attentato del 23 luglio 2016 durante una grande manifestazione di hazara a Kabul. Rivendicato dal gruppo Stato islamico (Is), l’attentato ha causato 85 morti e oltre quattrocento feriti.

Il 5 ottobre 2016 gli hazara hanno organizzato un raduno di protesta a margine della conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan. Centinaia di persone di ogni età reggevano cartelli e bandiere di varie nazioni. “Alcune sono arrivate addirittura dal Canada, dall’Australia e dagli Stati Uniti”, mi ha detto con orgoglio Amin Wahidi, che vive dal 2007 in Italia, dove ha ottenuto lo status di rifugiato. In Afghanistan è stato uno dei primi hazara a lavorare in televisione. Era alle prese con un lungometraggio quando i fondamentalisti lo hanno minacciato, costringendolo a partire. Oggi collabora con l’Hazara international network, per il quale era venuto a filmare il raduno. Amin mi ha parlato dell’Enlightening movement, lanciato dagli hazara per chiedere il rispetto dei loro diritti in Afghanistan, ma anche per esortare l’Unione europea a fermare le espulsioni verso l’Afghanistan. “La nostra lotta non violenta si sta organizzando al livello mondiale, soprattutto dopo il massacro del 23 luglio”, ha detto. “La nostra unica arma sono le parole, ma siamo decisi a farci sentire”.

Una formalità da sbrigare
Tahir Shaaran, presidente del World hazara council, riconosce che in Europa tutti gli afgani, non solo gli hazara, sono vittime di un esame affrettato delle richieste di asilo: “C’è una sorta di pregiudizio: sei afgano, dobbiamo sbrigare questa formalità ma sappiamo già come andrà a finire”. Sempre più spesso, con un rifiuto. Shaaran sottolinea il ruolo che possono svolgere le ambasciate e i consolati afgani negli stati membri. A seconda dell’affiliazione politica delle persone che ci lavorano e della loro appartenenza etnica, ambasciate e consolati possono mostrarsi più o meno solleciti nel proteggere i cittadini afgani dal rischio di essere rimpatriati.

Nei vari paesi europei in cui sono presenti, i rappresentanti del World hazara council organizzano proteste e incontrano politici e parlamentari locali per spiegare come stanno davvero le cose in Afghanistan. E in Afghanistan cercano di informare i parlamentari sulla situazione dei profughi in Europa, invitandoli a rimettere in discussione gli accordi sui rimpatri firmati dal governo di Kabul. Anche Abdul Ghafoor, direttore di Afghanistan migrants advice and support organisation, un’organizzazione che aiuta le persone espulse al loro arrivo a Kabul, punta sulla sensibilizzazione. Il 21 ottobre 2016 ha organizzato una conferenza stampa con altre organizzazioni della società civile afgana per denunciare la Joint way forward.“Molti parlamentari si sono sentiti presi in giro dal governo, che non li ha informati correttamente sul contenuto dell’accordo”, mi ha spiegato. “E ora vogliono riaprire il dibattito sulla questione”.

Profughi afgani aspettano di essere registrati in una centrale della polizia federale di Deggendorf, nel sud della Germania, l’8 settembre 2015. (Christof Hache, Afp)

In autunno il parlamento afgano ha bocciato un accordo bilaterale sui rimpatri, quello con la Svezia, accusandolo di porre l’accento sui rimpatri forzati più che su quelli volontari (come vengono chiamati, anche se chi accetta di tornare volontariamente in Afghanistan lo fa solo perché teme le violenze e il divieto di reingresso associati al rimpatrio forzato). E a ottobre le autorità afgane hanno rifiutato di accogliere un ragazzo di ventun anni atterrato all’aeroporto di Kabul dopo un’espulsione particolarmente brutale dalla Danimarca.

Quando la politica prevale sul diritto
Gli stati europei danno per scontata la collaborazione dell’Afghanistan, ma gli accordi firmati – sia quelli bilaterali sia a Joint way forward – sono protocolli d’intesa, giuridicamente non vincolanti. Questo lascia agli afgani, in particolare al parlamento, un margine di manovra per ridiscutere i termini dell’intesa, o perfino per farla saltare se per esempio gli episodi di violenza durante le espulsioni dovessero ripetersi, se il numero di minori non accompagnati espulsi dovesse essere considerato eccessivo o se i programmi di sostegno alle persone espulse dovessero rivelarsi insufficienti.

Di recente si è aperto un altro fronte di opposizione, con grande irritazione di Berlino: sei Bundesländer (stati federati tedeschi) su sedici hanno infatti deciso di sospendere i rimpatri verso l’Afghanistan, sostenendo che le condizioni di sicurezza nel paese non sono compatibili con il ritorno di richiedenti asilo respinti.

“Afghanistan is not safe”, l’Afghanistan non è sicuro ripetono gli attivisti in Europa e in Afghanistan, e nel 2017 lo sarà ancora meno. Ma ai governi europei non interessa, e per questo il 2017 sarà un anno di espulsioni, ma anche di proteste, di pressioni e di atti di solidarietà. Il trattamento riservato ai profughi afgani è uno dei tanti vergognosi frutti delle politiche di asilo europee. Sono politiche ingiuste perché non garantiscono protezione a chi dovrebbe riceverla; discriminatorie, perché si basano sull’assunto che la vita e la libertà di alcune persone valgono meno di quelle di altre; e brutali, perché prevedono il ricorso al ricatto e alle intimidazioni (con i governi degli stati terzi) e alla violenza (contro i cittadini di questi stati). Sono politiche in cui prevale la politica mentre dovrebbe prevalere il diritto, e per tutte queste ragioni devono essere considerate illegittime e combattute.

La prima parte di questo articolo è uscita il 19 dicembre 2016.

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