25 giugno 2012 12:48

Un gigante d’ebano. È l’immagine fisica e mentale insieme del capitano del film africano [La pirogue][1], visto a Cannes.

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Tra le poche proiezioni che ci sono piaciute di Un certain regard, la sezione quest’anno forse più debole (troppi film patinati e troppi film fighetto-indipendenti), il film di Moussa Touré, nel complesso ci ha colpito più che favorevolmente, pur non essendo un film formalmente innovativo (ma nemmeno pretende di esserlo).

La pirogue, il titolo già lo suggerisce, ha i toni del racconto mitico. E dei racconti mitici è tipico chiedersi quali siano le loro origini, perché certe situazioni ne siano costitutive. D’altra parte un racconto mitico è per definizione un racconto delle origini. La pirogue è un viaggio verso una speranza di fortuna. Le orde d’immigrati che dall’Africa – o da altre regioni – approdano sulle nostre coste (o arrivano ai confini di altri paesi europei) sono guidati da questa speranza. E il regista dice appunto di essersi chiesto, al posto nostro, visto che noi lo facciamo poco o per nulla: “Perché sono partiti?”. E, soprattutto: “Come sono partiti?”.

Se il film non è formalmente originale, lo è in compenso nel punto di vista adottato: la narrazione di un dramma mondiale sempre più di stretta attualità, in buona parte come un racconto mitico, quasi epico. Una piccola odissea, ma così grande in significazione umana. Viene in mente un film bellissimo, Aspettando la felicità (che Internazionale a suo tempo distribuì in dvd; ora è esaurito, ma è ancora rintracciabile su internet) di Abderrahmane Sissako, regista mauritano di vero spessore, successivamente autore di un film che ha incassato bene in Francia oltre a far molto discutere: Bamako, “processo”alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale ambientato in un cortile africano. Un film duro, severo, ma ironico e umano, privo di odio.

In realtà, La pirogue è proprio il frutto di un’integrazione tra Africa ed Europa, anzi è un’idea che parte dal produttore europeo, sintomo che ci sono persone nel nostro continente che s’interessano alla questione. Eric Névé, il produttore, era interessato da anni a un progetto del genere, e stava dietro al regista, conosciuto per numerosi documentari più volte premiati, in particolare al festival del documentario di creazione de La Rochelle. Il regista, da parte sua, riteneva che fosse per lui quasi troppo difficile parlare di questo argomento, trovare il giusto equilibrio tra l’implicazione e la distanza. Ma l’incontro, suggerito dallo stesso Touré, tra Névé e lo scrittore David Bouchet, perché elaborassero insieme un progetto di sceneggiatura, risolve pian piano la questione. Gradualmente, perché ci sono volute diverse fasi di scrittura per arrivare alla giusta versione. Un equilibrio tra i vari elementi, non ultimo tra contemporaneità e atemporalità.

Un prologo nel villaggio di pescatori situato nella periferia di Dakar, in Senegal, ci illustra velocemente la situazione: la confusione, la concitazione, per i preparativi di una grande partenza. La mestizia dei padri, che non possono non lasciare andar via i figli (anche se magari sono divorati dal desiderio di trattenerli) perché sanno che non c’è alcun futuro. E sanno che alte sono le possibilità per i figli di non tornare da quella traversata. I figli, talvolta schiavi compulsivi del ninnolo tecnologico propagandato dall’occidente. Un fenomeno nuovo nei paesi poveri, che produce alienazione anche in paesi in forte sviluppo ma caratterizzati da altrettanto forti diseguaglianze tra i diversi strati sociali della popolazione, come l’India e, soprattutto, la Cina.

Il grande regista cinese Jia Zhang-ke, Leone d’oro a Venezia nel 2006 per Still life, raccontava ai Cahiers du Cinéma, all’epoca dell’uscita in Francia del suo film d’esordio Xiao-wu, che tornando dagli studi di cinema di Pechino al suo villaggio natio, trovò una comunità alienata e sofferente, disgregata dall’arrivo dei cellulari, sorta di ninnolo, di microlunapark neotecnologico. Le persone avevano un rapporto compulsivo e ossessivo con questi oggetti, che faceva evaporare velocemente antichi comportamenti umani sedimentati nel corso del tempo: la naturalezza nel modo di vivere, nei rapporti interpersonali. Una cosa molto violenta. Tutti improvvisamente desiderosi di qualcosa che non sono e non potranno mai avere.

È vero che questo crea alienazione anche in occidente, ma lo scontro in queste culture è troppo violento, e somiglia un po’ a quello di alcune tribù dell’Amazzonia dopo l’incontro con la civilizzazione. I membri di queste tribù diventavano spesso degli alcolizzati con la maglietta della Coca Cola addosso, e con rapidità sconcertante. Lavori come Lungo il fiume: gli yanomami di fronte al loro destino (girato in quella parte dell’Amazzonia situata tra Venezuela e Colombia), realizzato da documentaristi di spessore come Paolo Brunatto (insieme a Cristiano Barbarossa) sono a questo proposito molto esplicativi, perché fanno vedere il prima e il dopo lo spaventoso shock culturale, attraverso riprese effettuate da Brunatto nel corso degli anni. In La pirogue, una scena tra padre e figlio dice su questo moltissimo.

Quant’è bella questa piroga, e quant’è grande. Al suo interno vi si scopre una vera e propria architettura, al suo esterno la ornano disegni astratti e colorati su cui campeggia la scritta “Goor fitt”. C’è un’immagine splendida del film, che pare quella del possibile manifesto e per ora è quella del dossier stampa, dove la grande piroga solca il mare al tramonto: il sole scintilla esattamente al centro di essa. I passeggeri semievanescenti, grazie all’effetto di controluce e ai colori dorati, paiono quasi disegnati, pittati, vagamente stilizzati. All’estrema destra dell’imbarcazione si staglia la nera silhouette di Baye Laye, il capitano integerrimo della piroga – il gigante d’ebano dell’inizio –, all’estrema sinistra, l’immagine forse più stilizzata, il braccio di un uomo che si agita nell’aria, forse ballando, forse salutando il mare, e con lui la promessa di una prossima felicità. È un istantanea della piroga nel suo momento di gioia, poesia e speranza. Come le foto ricordo di un gruppo di giovani amici, prima delle avversità della vita che li divideranno, li piegheranno.

Gli abitanti della piroga, perché gradualmente la grande barca diverrà come un abitazione, la vivranno prima come una protezione, poi come luogo opprimente, infine come limbo infernale. A un certo punto la vita nella barca è sempre più spesso filmata dal suo interno, la camera è sempre più spesso collocata in basso, facendoci sentire tutta la claustrofobia, la sensazione terrificante dell’assenza di una via d’uscita: una prigione nell’immensità degli spazi aperti. Cielo e mare.

Ai siparietti di vita quotidiana nell’imbarcazione si susseguiranno infatti privazioni di cibo e acqua, momenti inumani quando si dovranno lasciare al loro destino i componenti di un altra piroga che chiedevano aiuto in un mare arso dal sole (non si possono sprecare una goccia di cibo e acqua in quelle condizioni, senza contare il sovrappeso nella piroga), tempeste apocalittiche che lasciano i primi morti o i primi casi disperati di persone sulla soglia tra vita e morte. E ancora la piroga che prende acqua dopo la tempesta, il padre che vede il figlio morire. L’immigrato che tanto teneva alla sua gallina è forse il personaggio che meglio sintetizza una sensazione di tragedia mischiata a una sensazione di (pre)destinazione risibile. Una ben strana commistione.

Un’odissea è vero, ma dove la sofferenza pagata dalle ingenuità verso certa propaganda emerge in una maniera che non ha davvero nulla di epico.

Le grandi speranze, l’energia dell’entusiasmo figlio della disperazione, si dissolveranno nella fame, nella sete, nelle insolazioni. Nella rassegnazione, anch’essa figlia della disperazione. Alla fine, forse, ci sarà la salvezza. Ma non per tutti. E con il pensiero rivolto ai compagni morti della piroga e a quelli della piroga abbandonata al fine di permettere a questi pochi una speranza di vita diversa e migliore. Che noi il più delle volte calpesteremo.

Su Le Monde del 19 giugno, nelle vaste pagine di cinema del quotidiano (davvero un altro paese la Francia rispetto all’Italia, anche se quasi tutti i paesi europei sono messi meglio del nostro sotto quest’aspetto), trovo un bel reportage che ci parla tra l’altro d’immigrati e piroghe.

L’inviata di Le Monde dà conto di una serata nei dormitori dei quartieri africani parigini, nella fattispecie nel tredicesimo arrondissement della capitale, dove non pochi sono anche i francesi con origini familiari cinesi. L’idea è quella di un festival del cinema che “in questi luoghi inattesi diventi vettore di parole e incontri” (entrata gratuita tutti i venerdì sera dalle 21 e il sabato pomeriggio a partire dalle 16. Si veda Attentionchantier.org). Organizzato da un gruppo di amici, guidati da una giovane, Adeline Gonin, cresciuta con dei genitori impegnati nel sostegno ad azioni come gli scioperi degli affitti alla Sonacotra, tra il 1975 e il 1980, il festival è giunto alla sua quarta edizione.

Quest’anno si è tenuto in rue Chevaleret, in un dormitorio costruito per 435 persone che ne ospita oggi il triplo, in stanze con tre letti da 15 metri quadrati e dove ciascun letto è affittato per circa 240 euro. “Una vita da caserma, in un palazzo fuori uso che attende il suo rinnovamento da 14 anni”, commenta l’inviata di Le Monde. In questo contesto avvengono le proiezioni, seguite con partecipazione ed entusiasmo. Nella serata raccontata dal quotidiano francese sono stati proiettati un cortometraggio, La France qui se lève tôt, di Hugo Chesnard, commedia musicale che racconta “in versi, il rimpatrio forzato di un operaio clandestino verso Bamako”. E il documentario Sombras, dello spagnolo Oriol Canals, che dà la parola ai migranti che si riversano sulle coste iberiche dopo le traversate dell’oceano in piroga. “La programmazione è il frutto di discussioni tra noi e i residenti, ai quali apportiamo, a monte, estratti dei film”, spiega a Le Monde il proiezionista Jonathan Duong. Questo consente di scoprire film non distribuiti – e in Francia si distribuisce davvero molto – o poco diffusi.

“Verso le 14 un grande vento si è alzato. Faceva tutto quel che voleva della piroga. Dimenticando di svuotarla, ci siamo seduti, aspettando la morte…”. Per vedere Sombras il pubblico è dovuto passare in una sala coperta, perché sorpreso da un forte rovescio temporalesco. Ma la furia degli elementi delle reali odissee è ben poca cosa rispetto alla piccola quotidianità.

Mi viene in mente un’ultima considerazione finale. Non scordiamoci di figure come André Bazin, il grande teorico del cinema cofondatore dei Cahiers du Cinéma, che da cattolico di sinistra faceva del volontariato, e di Jean Rouch, indiscussa figura di cineasta-antropologo sui campi di battaglia. Potrebbe infatti essere qui, almeno in parte, il futuro della critica cinematografica: nei quartieri africani delle nostre metropoli. E tra le piroghe.

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