06 settembre 2019 11:11

Bisogna riconoscerlo. In definitiva quest’anno c’è non poca politica, e anche abbastanza scomoda, tra i film del Concorso veneziano. Come attesta anche la recente proiezione del film di Robert Guédiguian, Gloria Mundi, che fa risalire le quotazioni dei film proiettati decisamente abbassate dopo alcuni fuochi d’artificio visti nel fine settimana – tra cui il notevole Joker di Todd Phillips –, culminati con Martin Eden di Pietro Marcello. Vista la grande quantità di opere proiettate in questi giorni nel Concorso ci attardiamo su questi ultimi titoli.

Film di poesia Martin Eden – di cui abbiamo già scritto – che nella sua parte politica, così spiazzante, sembra fatto apposta per disturbare un certo pubblico borghese, soprattutto una parte di coloro che erano molto a sinistra in gioventù e che oggi sono forse più realisti del re, come dice il detto.

L’istigatore del disprezzo
Il film di Guédiguian, invece, è interamente immerso nella prosaicità dell’oggi. Mette in scena una famiglia al momento della nascita di una bambina – Gloria – nel senso letterale, vale a dire filmando nella sequenza d’apertura un parto aureolato dalla luce bianca e dall’accompagnamento musicale che ne sottolinea ulteriormente il lirismo. Questo lirismo di maniera, seppur non privo di bellezza, si rivela presto apparenza. E così sarà fino alla chiusura del film. Perché la famiglia non è qui limitata a una coppia, ma è estesa ai nonni, alla zia e a suo marito.

Se per alcuni la prima forma di comunismo, di messa in comune dei beni, è la famiglia, il regista francese – noto per le sue commedie che fanno uso di un tono leggero per trattare di questioni sociali importanti – propone una radiografia precisa della sua esplosione per effetto non solo delle politiche liberiste ma anche per i messaggi lanciati dalla politica, che ne minano dall’interno la struttura.

Il crimine, camuffato o protetto dalla famiglia, diventa per alcuni l’unica forma possibile di sopravvivenza. Interessante provocazione che stimola alla riflessione

Sono passate in rassegna, concentrati in buona parte nella famiglia, tutte le tipologie dell’alienazione odierna legate al lavoro. La precarietà al limite dello schiavismo, la divisione tra poveri – dividi et impera –, gli atti rabbiosi – al limite del gesto criminale – da parte di persone sfinite e alle quali da decenni viene sottratta ogni possibilità di vivere un’esistenza normale, che annegano ogni giorno di più nella disperazione vedendosi sottratta ogni speranza – il cui simbolo retorico è la nascita di un nuovo essere umano – e sentendosi prese in giro da decenni dall’intera classe politica che non mantiene le promesse. E infine c’è l’insensibilità dei nuovi ricchi, di cui sono espressione la zia citata e soprattutto il marito. Il disprezzo continuo, ostentato, verso i “mediocri”, i presunti incapaci.

L’istigatore di questi sentimenti – chiarissimo nel film, benché sia nominato solo come “il presidente della repubblica“ – è qui Emmanuel Macron che non fa altro che parlare di inetti, incapaci, mediocri, un linguaggio e modi di esprimersi del tutto inediti nel paese della rivoluzione francese e che hanno fatto precipitare il presidente in termini di popolarità tra gli elettori di sinistra – da loro votato per bloccare l’estrema destra di Le Pen sperando che fosse espressione di una politica centrista – ma che, stando ai sondaggi, ha trovato nuova popolarità tra gli elettori di destra.

Il crimine, camuffato o protetto dalla famiglia, diventa per alcuni l’unica forma possibile di sopravvivenza. Interessante provocazione che stimola alla riflessione. Il cinema umanistico, bonaccione e un po’ di maniera di Guédiguian, mettendo il dito su tutti gli aspetti più sensibili della questione sociale in Francia, sembra aver preso qui una svolta inedita e sorprendente.

Gigantesco sberleffo
Un ambiente sociale deterministico che non lascia possibilità di fuga agli esseri umani è anche uno dei messaggi di fondo dello straordinario Joker di Todd Phillips, dove troviamo la medesima insensibilità che uccide migliaia di esseri umani quotidianamente, fisicamente o spiritualmente, e la medesima risposta violenta con l’omicidio plurimo di yuppie. Qui si raccontano e reinventano le origini del Joker, il nemico per antonomasia di Batman. E si scopre che il pagliaccio fallito e vittima di tutti gli abusi immaginabili durante l’infanzia e anche dopo, istigatore della protesta dei falliti – che improvvisamente nella città si travestono tutti da pagliacci – è di conseguenza all’origine dell’omicidio dei genitori di Bruce Wayne uccisi da uno di questi pagliacci e della nascita del supereroe più ossessivo e dark della storia del fumetto, l’uomo pipistrello.

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Il comune rapinatore che nei vicoli bui uccide il miliardario, nei fumetti che hanno raccontato l’origine di Batman, qui è un clown. E se la grande ribellione porta i segni, anzi le stimmate, della follia è perché la follia, il caos e l’insensatezza sono ormai il tratto dominante di una società dove i forti hanno rinunciato a ogni forma di pietà e di rispetto verso chi è povero. Rimane allora solo un gigantesco sberleffo che espliciti la violenza sotterranea della meccanica liberista del capitalismo, quella che pare una sua follia endemica, arrivato a mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’umanità con il riscaldamento climatico.

Tutt’uno con il personaggio, è la prosaica e insieme teatrale interpretazione del personaggio da parte di Joaquin Phoenix, forse la migliore della sua carriera. Serrato e ipnotico, le atmosfere, i colori psichedelici che restituiscono una New York a cavallo degli anni settanta e ottanta – che annuncia la deriva forse senza ritorno di oggi – sono intense e ne fanno un Taxi driver sconsolato, triste, disadorno, grezzo, che ha del tutto perso la dimensione da bolla sognante del film di Scorsese che conferiva un’inattesa e potente dolcezza alla crudezza delle questioni affrontate.

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La follia intrinseca, la sua assurdità e crudeltà insensata, risalta con grande eleganza nella bella commedia satirica di Steven Soderbergh, The laundromat, strutturata come un teatrino, o un incastro di tante microstorie da strip a fumetti. Un teatrino risibile quello che mette in scena coraggiosamente il regista statunitense che sembra, volontariamente o meno, andare incontro alle tesi difese da Bernie Sanders in questa fase preparatoria delle primarie democratiche che nella corsa alla nomination si scontra in primo luogo con l’ex vicepresidente Joe Biden.

Sanders chiede un controllo radicale dei mercati finanziari, distruttori non solo dei poveri ma prima di tutto della classe media, sul modello delle leggi emanate a suo tempo da F.D. Roosevelt e poi eliminate da Clinton. È significativo che il Delaware, lo stato di Biden, nel film sia più volte indicato come il principale paradiso fiscale degli Stati Uniti. L’incredibile vicenda dello scandalo dei cosiddetti Panama papers sembra confermare che la spregiudicatezza immorale è capace di uccidere le speranze di una vita degna per gli esseri umani normali, dotati di una visione umana e morale, esemplificati nel film dal personaggio interpretato da Meryl Streep.

In chiusura, passiamo dalla politica alla grande storia. Il celebre caso del capitano Alfred Dreyfus, che aprì l’epoca dell’antisemitismo in Europa occidentale, lo racconta J’accuse di Roman Polanski con un cast di attori di prim’ordine, Jean Dujardin, Emmanuelle Seigner e un irriconoscibile Louis Garrel. Al netto delle polemiche che ne hanno preceduto la proiezione, se il film si rivela in definitiva un solido legal thriller, a tratti forse un po’ noioso – avendo anche lasciato ai margini il celebre testo di Zola che dà il titolo al film, pubblicato sul quotidiano L’Aurore – è forse perché a Polanski questa scelta permetteva di meglio raccontare, tra le altre cose, la stupidità umana. Forse il tema ricorrente di molti film del Concorso.

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