16 ottobre 2021 13:18

Il taiwanese Tsai Ming-liang è un poeta del quotidiano più prosaico e un vero sperimentatore senza pose alcune. Tra i più significativi cineasti contemporanei, sorprese fin dal suo secondo film, Vive l’amour, Leone d’oro a Venezia nel 1994 (ex aequo con il ben più dimenticabile Prima della pioggia di Milko Manchewski). E sorprende anche con Days. Il suo film, che giunge in Italia proprio mentre il leader cinese Xi Jinping rivendica con nettezza l’annessione di Taiwan alla Cina, è stato presentato in concorso a Berlino nel 2020 poco prima che la pandemia provocasse un lungo lockdown. Ma rappresenta anche una svolta ulteriore nel percorso di questo autore dalle infinite sfaccettature, spesso sottili, e un momento importante per il cinema, che permette di offrire una riflessione articolata e un minimo profonda sullo stato del mezzo d’espressione.

Per lui il corpo è strumento fascinoso d’indagine, perché inteso come sismografo della vita, dell’invecchiamento. E i corpi sono misurati, è il termine giusto, dalle sue inquadrature in quanto sismografi a loro volta della società, della sua alienazione. Inquadrature con un lavoro impressionante sulla profondità di campo, dove coabitano in straordinaria simbiosi il grandangolo, che distorce ampliando e dilatando la realtà, e il piano sequenza, dove la camera segue l’oggetto ripreso senza stacchi, cioè il procedimento per antonomasia di riproduzione della realtà.

Con Days questo è vero più che mai. Film concettuale quanto sensuale di climax giustapposti, riesce a costruire un racconto a suo modo lineare con sequenze a montaggio alternato su un uomo maturo di Taipei dai grandi problemi di cervicale e in cerca di cure, e un giovane laotiano che lavora in nero a Bangkok preparando piccoli piatti del suo paese d’origine. I due si conosceranno poi di persona.

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È dolce, quieta, la tonalità scelta dal regista per questo racconto di solitudine totale ambientato in una megalopoli asiatica concepita, al pari delle altre, come una distorsione di più normali città: geometrie dilatate per spingere i flussi economici che mutano però gli esseri umani in molecole, come delle micro-luci di giganteschi flussi al neon, destinati a non incontrarsi mai, a non soffermarsi mai l’uno sull’altro.

È proprio questo il tema fisso del cineasta di Taiwan: fotografare, con molta dolorosa tenerezza, umane solitudini che non s’incontrano o al massimo si sfiorano. Sono film del mutismo, del silenzio della parola, ma al contempo dai mille suoni, fascinosi e non, e dalle mille luci, quelle di metropoli trasfigurate in luoghi misteriosi dal sapore metafisico. Al tempo stesso c’è molta quiete. Una quiete tutta orientale che fa da contrappunto all’evidente vuoto interiore e angoscia esistenziale, una quiete che avviluppa lo spettatore con il suo dolce manto. La successione di sequenze che sono una sorta di climax d’ambiente, quasi una per ogni giornata, con suoni e luci ipnotiche, trasmette leggerezza, delicatezza, in evidente contrasto con le tematiche di fondo.

Ma è anche un’altrettanto evidente forma d’oblio, un oppio psichedelico, volto a lenire le (nostre) ferite dell’anima. Perché loro siamo noi e viceversa. L’alterità, così tipica del cinema di Tsai Ming-liang, in Days è più presente che mai. E per l’altro, inteso come nostro prossimo nel quale ci riflettiamo, nel quale ci vediamo allo specchio, vale lo stesso discorso.

L’uomo maturo è immancabilmente il suo attore feticcio Lee Kang-sheng, che lo accompagna fin dal film d’esordio Rebels of the Neon God (1992), in cui si segue il suo peregrinare verso una cura per il suo male misterioso (il film nasce infatti dalla reale sofferenza fisica e interiore dell’attore). Quello più giovane è invece il laotiano Anong Houngheuangsy, che il regista lancia come attore e che interpreta qui la sua vecchia professione nel mondo reale. Se la crudeltà della sofferenza fisica nella vita è il tema, allora il suo rovescio sta nel fatto che l’empatia spirituale deve passare attraverso i corpi. È l’unico modo per esperire una forma di conoscenza, non solo per conoscersi e uscire dall’anonimato spersonalizzante e omologante.

Se la crudeltà della sofferenza fisica nella vita è il tema, allora il suo rovescio sta nel fatto che l’empatia spirituale deve passare attraverso i corpi

Fondamentale nella messa in scena è il dialogo con l’arte contemporanea, più esattamente con le installazioni e la video-arte, che si fa più evidente che mai. Se il cinema d’autore d’estremo oriente è in gran parte impregnato della lezione di Michelangelo Antonioni, è anche vero che lo ha rielaborato in maniera originale e potentissima, quasi come se ne fosse il legittimo proprietario, anche se in verità l’autore di L’Avventura ha rivoluzionato l’intero cinema della modernità. Ma introducendo uno sguardo che proviene dall’arcaico.

Hou hsiao-hsien, taiwanese come il malesiano di nascita Tsai Ming-liang, ben più avanti negli anni rispetto a quest’ultimo e capofila della nuova ondata del cinema di Taiwan degli anni ottanta, è uno dei massimi autori del cinema contemporaneo, anche se in Italia quasi sconosciuto. Al quotidiano francese Libération, Hou hsiao-hsien confessava la grande impressione avuta dalla visione di Blow-Up (1966) di Antonioni, per la sequenza della partita a ping pong con la pallina che non si vede, che non c’è, ma c’è. L’invisibile, l’astrazione. Invece di esibire quello che è evidente, ardire a esibire quello che non è evidente: un’idea talmente zen che non poteva lasciare indifferente i cineasti d’estremo oriente. Ed è l’opposto dell’ideologia soggiacente in tanto pseudocinema d’autore contemporaneo, che potremmo definire un cinema dell’evidenza, dell’ovvio, della metafora telefonata, compreso gran parte di quello hollywoodiano di oggi, se comparato in primo luogo al cinema hollywoodiano di ieri.

E proprio il cinema di Antonioni cominciava il dialogo con le innovazioni e sperimentazioni praticate in quegli anni nelle arti visive d’avanguardia, rielaborandole con sapienza unica come strumento per parlare dell’alienazione dell’uomo contemporaneo, della sua perdita d’identità, della ormai celebre, e forse un po’ abusata, problematica antonioniana dell’incomunicabilità, ma partendo dall’intimo per andare verso il sociale, il collettivo, l’universale.

Abusata, ma la problematica sussiste più che mai, perché mai risolta e anzi spesso quintuplicata in Asia, dove la (post)modernità liberista è arrivata con violenza su tessuti sociali spesso arcaici. Hou hsiao-hsien, il cinese Jia Zhang-ke, il tailandese Apichatpong Weerasethakul, Palma d’oro a Cannes nel 2010 con Lo zio Boonmee che si ricorda delle vite precedenti, anche l’hongkonghese Wong Kar-wai nella prima parte della sua filmografia, sono tutti cineasti figli di Antonioni e tutti hanno un forte dialogo con le arti visive e le installazioni, video e non. Alcuni le praticano correntemente al di fuori del lavoro più propriamente cinematografico, come Apichatpong. E come Tsai Ming-liang.

Fremiti dell’anima
Se forse altri ibridano di più le forme (Apichatpong, Jia), tra questi, Tsai Ming-liang è però il regista che ha proseguito la strada più radicale: sempre meno narrativo, sempre più interessato a registrare i minimi fremiti dell’anima stendendo la camera sui corpi, di un’estrema sensualità quanto gli ambienti urbani. Se sappiamo guardare veramente, nella fisicità c’è l’espressione dell’interiorità, c’è lo scorrere della vita e dei segni del tempo, ed è questo che il cineasta ci propone di fare con il suo film-flusso, che in fondo è anche rilassante.

Da bambino, Tsai Ming-liang oltre a quello hollywoodiano amava molto il cinema popolare del passato proveniente da Hong Kong, come le storie epiche di spadaccini volanti, i wuxiapian, e in particolare quelli di King Hu, perché pieni di arte e filosofia, anche se avevano il chiaro intento di divertire il grande pubblico. Ora il cinema è per lui un cavallo di Troia privato al suo interno dei soldatini dell’arte. E nelle sale la comunità si riuniva, vi si ritrovava anche spiritualmente. Oggi le persone sono rinchiuse in orribili centri commerciali, omologanti, disumanizzanti e asettici. Per questo ha onorato quel cinema nel sublime Goodbye Dragon Inn, ambientato in una sala sul punto di chiudere, e ormai adibita a incontri sessuali tra uomini, ma dove veniva proiettato uno dei grandi successi di King Hu, Dragon Inn appunto.

E per questo esprime la sua preferenza di fare cinema per i musei, perché rispettano per intero l’opera e la durata della sua visibilità. Come tra l’altro il museo del Louvre che ha prodotto nel 2008 il suo film Visage (inedito in Italia ma disponibile in dvd). E se questo, tra tanto ciarlare di morte del cinema, rappresentasse invece il possibile punto d’incontro tra museo e sala segnando una svolta nella storia del cinema, della sua fruizione? Perché non immaginare film prodotti o coprodotti con i musei, che escono in poche sale scelte, magari in una sala soltanto, e poi continuano o si sovrappongono in un museo?

Crediamo sia un’ipotesi sulla quale riflettere concretamente. La grande bellezza del suo precedente lungometraggio, Stray dogs, incentrato sul nuovo proletariato suburbano, un contenitore di quadri-sequenze di una rara potenza che ne fa quasi un film rinascimentale, ne potrebbe essere l’emblema perché, contrariamente a quanto si afferma, trova il suo senso pieno proprio con la visione sul grande schermo. Confermando in modo nuovo il pensiero di André Bazin, il grande critico-teorico cofondatore dei Cahiers du Cinéma, che vedeva il cinema come il prosecutore di quello che le arti figurative avevano a lungo rappresentato. Si parla tanto di morte del cinema, ma un libro appena uscito in Francia per Gallimard, L’histoire-caméra. Le cinéma est mort, vive le cinéma, dello storico ed ex direttore dei Cahiers du Cinéma Antoine de Baecque, recensito molto positivamente sia dai Cahiers sia da Positif, elenca le ragioni per essere scettici su questa funesta previsione.

Anche il relativamente più minimale Days è un film da schermo molto grande, forse gigante. A Roma, per esempio, sarà proiettato in una sala come il cinema Troisi. Una scelta coraggiosa e intelligente per cogliere meglio l’unicità del cinema, la sua crudeltà piena di umana dolenza, piena di amore e poesia, verso l’umanità, verso la vita.

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