06 ottobre 2021 10:09

In quattro giorni 145 aerei da combattimento cinesi sono decollati in direzione di Taiwan, l’isola su cui Pechino reclama il controllo. I jet cinesi, mai così numerosi, sono entrati nella zona d’identificazione aerea taiwanese costringendo l’aviazione dell’isola a levarsi a sua volta in volo per essere pronta in caso di necessità.

Non si tratta di una violazione dello spazio aereo taiwanese propriamente detto, che sarebbe un atto di guerra, ma di manovre d’intimidazione ripetute, destinate a inviare un messaggio chiaro ai taiwanesi: siete alla nostra mercé.

Per non lasciare dubbi, il Global Times, quotidiano nazionalista del Partito comunista cinese, ha scritto: “Gli aerei non sono una flotta di rappresentanza, ma una forza da combattimento. L’Esercito popolare di liberazione organizza l’assedio di Taiwan e mette in atto una dimostrazione di forza come già fatto a Pechino nel 1949”.

Evidentemente in questa azione c’è un aspetto di pressione psicologica, da parte sia degli aerei sia degli zelanti editorialisti di Pechino. Ma come sempre accade con la Cina, è meglio prendere le minacce sul serio. La conquista di Taiwan è l’obiettivo principale del numero uno cinese Xi Jinping, che vorrebbe passare alla storia come l’artefice della riunificazione dell’ex impero di mezzo.

Diversi elementi emersi nelle ultime settimane obbligavano Pechino ad agire, a cominciare dalla creazione dell’Aukus, l’alleanza tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia di cui si è molto parlato e che è giustamente percepita come un patto contro la Cina.

L’offensiva cinese punta a fiaccare il morale dei taiwanesi sull’onda lunga della partenza degli statunitensi dall’Afghanistan e della caduta di Kabul. Il messaggio di Pechino in questo senso è: “Non fate affidamento sugli Stati Uniti, perché non verranno ad aiutarvi”.

È in questo contesto che Tsai Ing-wen, presidente di Taiwan eletta democraticamente dai 23 milioni di abitanti dell’isola, ha pubblicato il 5 ottobre un’opinione sul sito americano Foreign Affairs, in cui lancia un avvertimento al mondo: “Se Taiwan dovesse cadere le conseguenze sarebbero drammatiche per la pace regionale e per il sistema democratico. Questo sviluppo dimostrerebbe che nel confronto di valori al livello mondiale l’autoritarismo ha avuto la meglio sulla democrazia”.

Il sostegno statunitense a Taiwan non è scontato. Non esiste un trattato di alleanza tra gli Stati Uniti e Taiwan, perché Washington riconosce la Cina continentale, quella di Pechino. Questa ambiguità strategica spiega la grande instabilità nella zona.

Come spiega Jean-Pierre Cabestan, specialista di questioni asiatiche e autore di un libro intitolato significativamente “La Cina di domani, guerra o pace?”, l’interrogativo principale riguarda la possibilità che Pechino si assuma il rischio di una guerra per la conquista di Taiwan, consapevole del fatto che “Taiwan non ha più i mezzi per resistere da sola a un’offensiva dell’esercito cinese. In caso di guerra solo un impegno militare massiccio degli Stati Uniti potrebbe salvare l’isola”.

Questo spiega il nervosismo dell’ambasciata cinese in Francia, che invano ha cercato di impedire una visita a Taiwan, in programma questa settimana, di alcuni senatori francesi guidati dall’ex ministro socialista della difesa Alain Richard. Pechino vuole isolare Taiwan dal mondo esterno, nella speranza che cada come un frutto maturo. La questione del destino dell’isola è ormai al centro dello scontro geopolitico globale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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