Non è difficile vedere cosa c’è di destra nel film di Clint Eastwood American sniper, silurato agli Oscar, anche se il loro autore e perfino questo film hanno in Italia sostenitori in un’area che si pensa e si dice di sinistra (ed è un guaio per tutti). Non è difficile vedere cosa c’è di destra nel pluripremiato Whiplash di Damien Chazelle, abile sceneggiatore e abile regista.

È difficile capire i meccanismi che presiedono alle votazioni degli Oscar, quanti voti siano manipolati dai grandi poteri economici newyork-hollywoodiani e quanti rispondano alle suggestioni di una categoria, la casta californiana dei “lavoratori del cinema”, che vive di mode e influenze contingenti, di simpatie e antipatie, di comunanze e distanze, di appartenenze e rivalità decisive per l’assegnazione dei premi.

Ci sembra, in verità, che se Eastwood fa più paura di Chazelle ai mediocri hollywoodiani, perché è certamente più bravo (più “classico”), risponde però alla stessa ideologia. Il suo film più vicino a quello di Chazelle (ma lì l’eroina soccombeva) è Million dollar baby, che raccontava per l’ennesima volta la smaniosa logica americana della lotta per diventare qualcuno, per emergere, nella distinzione mostruosa che quella cultura fa tra winner e losers.

A essa tanti si ribellarono, a cominciare da Hemingway, esaltando, tra anni trenta e settanta, i perdenti al posto dei vincenti, e fu quella l’unica cultura americana che abbiamo davvero amata. La Baby di Eastwood ci lasciava le penne per aver scelto di seguire l’ideologia darwiniana del vincente, e a me sembrò, un po’ sadicamente, che fosse giusto così.

Il meccanismo è lo stesso dei film di guerra con il sergente cattivo e il soldato debole che grazie a lui si fa forte (e spietato) e “ce la fa”. Kubrick ne mostrò un prototipo in Full metal jacket, e ne vedemmo una sorta di estrema parodia in Ufficiale e gentiluomo, nel 1981. Il sergente nero e cattivo di quel film, Louis Gossett jr, vinse l’Oscar, come il professore di jazz J.K. Simmons lo ha vinto ora per Whiplash. Fratelli, nonostante il colore della pelle.

E il rapporto di Gossett con Gere nel vecchio film è sadomaso quanto quello di Simmons con Miles Teller, il giovanissimo batterista imbranato che diventerà geniale, che diventerà il primo, il migliore. Povero “Bird” Charlie Parker, portato a modello di questa favola per gonzi, niente più che la solita “corsa dei topi” di cui hanno parlato i sociologi. Per uno che “emerge”, milioni che crollano e milioni che ci riprovano. Davvero: che palle! (per altro, per quel poco che ne capisco, perfino il jazz non è più lo stesso, tutto scritto e imbracato, e con molta minore libertà di improvvisare, inventare, “creare”).

Whiplash è, tecnicamente, un buon film: buona sceneggiatura, bravi attori, perfino buona musica. Se ci sta antipatico è perché ci sta antipatica l’America (cioè gli Stati Uniti)? Perché, come diceva Susan Sontag, gli Stati Uniti hanno imposto al mondo “la peste” (Sontag dixit) del loro modello maggioritario e a tratti totalitario? Me lo chiedo spesso, e soffro – non sono il solo, siamo in tanti – nel vedere così fiacca una minoranza statunitense (chiamiamola anche, se vogliamo, “una sinistra”) che ha detto ben altro e che c’è ancora e dice ben altro, e che è comunque, anche perché sa tenersi lontana dal baraccone dello show business, molto più intelligente di quella italiana, più americana degli americani.

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