04 marzo 2015 11:54

Paul Thomas Anderson, regista di Boogie nights e Magnolia, e soprattutto del Petroliere e The master, si conferma come uno dei pochi autori con la A maiuscola del cinema contemporaneo, rarissimi soprattutto negli Stati Uniti. Non è un caso che il suo ultimo e grande film, Vizio di forma, dal romanzo di Thomas Pynchon sugli anni settanta, non abbia vinto neanche un Oscar, di cui hanno invece fatto man bassa i film più ipocriti della scorsa stagione e gli smerciatori delle storie più ruffiane. Non è neanche un caso che gli anni settanta siano stati quelli di una grande stagione del cinema americano, quelli che Pynchon ha vissuto da dentro e di cui Anderson, nato nel 1970, ha vissuto a ritroso il mito, con la sua straordinaria (dico bene: straordinaria, non comune) sete di capire il paese in cui gli è capitato di nascere, la sua storia, le sue contraddizioni, le sue mutazioni.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Sfondo del romanzo e del film sono gli anni di Nixon nella California di Reagan, del Vietnam e del Black Power. Sono anche gli anni di una generazione che ha confusamente cercato di cambiare le cose anche “partendo da sé”, e che ha perso non solo perché il nemico era fortissimo e perché le maggioranze alla fine scelgono sempre di stare dalla parte di chi più le illude, ma anche perché era priva di proposte più generali e di capacità organizzative. Alla fine del decennio nacque un cinema – ancora un grande cinema – di sconfitta e d’insicurezza, di paura e di sospetto, perfino di paranoia (una parola che nel film di Anderson ricorre) e naturalmente il genere cinematografico che meglio seppe narrare quelle sensazioni fu il noir, o un poliziesco di immediate venature allegoriche e metaforiche a cui Anderson si rifà esplicitamente, come vi si rifaceva Pynchon nel romanzo.

Già negli anni trenta Hammett e Chandler non si preoccupavano della chiarezza delle trame che costruivano, interessati piuttosto a comunicare (come poi fecero i loro adattatori e imitatori, da Hawks a Aldrich, da Altman a Polanski) la sensazione di una matassa di legami in cui pubblico e privato, visibile e nascosto, risultassero alla fine inestricabili, confusi: una realtà che ha sempre un dietro e un altro, un complotto, un occulto. Sono forse questi i romanzi e i film che hanno meglio investigato sugli Stati Uniti, la loro antropologia e la loro economia. Vizio di forma ne è un degno erede, e si ha spesso la sensazione, vedendolo, che non si tratti di storia, ma del nostro presente, e che solo la superficie sia cambiata, non l’essenziale. Nulla è come sembra, ci dice Anderson, la realtà è complicata, e hanno un peso anche le passioni dei singoli, gli affetti, le frustrazioni, le ambizioni. E non è certo un caso se i personaggi femminili sono determinanti. Si è trascinati in una vicenda di continui rimbalzi e rovesciamenti, con un episodio dopo l’altro che aggiunge, confonde, ritorna, salta. Per concludere – una volta vagamente svelati gli arcani, le consonanze e le dissonanze – che ci si trova dentro un meccanismo assurdo, una società assurda.

La maestria di Anderson sceneggiatore e regista ci fa da guida ora sconcertandoci ora depistandoci, ma lascia a noi spettatori il compito di collegare, di capire quel che c’è da capire, che è più un senso generale che non delle verità particolari. Aiutato da attori tutti indovinati e perfetti (magnifico Joaquin Phoenix) e dalla rievocante voce off di una narratrice che è anche una delle protagoniste, ci riporta infine al peso di valori antichi e importanti, le uniche cose su cui ancora sembra possibile, da questo film, basarsi nel generale disastro: l’amore, l’amicizia.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it