10 settembre 2015 11:18

È molto probabile che i due film italiani che il red carpet di Venezia ha escluso dal concorso siano anche i due più nuovi e nostri contemporanei, nel senso della necessità di un’arte che entri nelle contraddizioni della condizione umana di oggi e proprio di oggi, e che ci provochi perché le si affronti, che non le svenda soffocandole nella comunicazione mercantile.

Grazie ad Alberto Barbera, ottimo funzionario della corporazione dedita a propaganda e spettacolo nel mondo (dove girano i miliardi: è una delle industrie mai in crisi, perché di divagatori e pusher “culturali” il potere ha sempre bisogno), tutto diventa più chiaro. I due film sono stati infatti rigorosamente e coerentemente esclusi dal concorso veneziano: Bella e perduta di Pietro Marcello (non premiato a Locarno, passerella corporativa minore) e questo Non essere cattivo di Claudio Caligari, appena uscito nelle sale e che si spera che il pubblico migliore corra a vedere. Non esito a dire che sono due piccoli capolavori, ma piccoli solo per il costo, per la marginalità della produzione.

Affronteremo il primo quando uscirà. Del secondo dico subito il dispiacere per la morte recente del suo regista, marginale per scelta. Del suo Amore tossico (1983) non fui entusiasta, per qualche compiacimento di troppo, mentre L’odore della notte (1998), più brutale e decisamente migliore, risentì della voga della brutalità, in quegli anni, di altri film presunti di denuncia e che erano invece di maniera.

I cattivi non sono solo cattivi, e non sempre è colpa loro se lo sono

Con Non essere cattivo, l’opera omnia di Caligari consta di tre film in tre decenni e mezzo, e anche questo dà un’idea di cosa sia “il mondo del cinema”, in particolare romano. Con l’ultimo, prodotto grazie all’amicale devozione di Valerio Mastandrea, che era stato il giovane e sorprendente protagonista del secondo, Caligari ha come depurato la sua materia, raggiungendo una misura artistica e umana alta e intimamente commossa, che oserei dire religiosa proprio nel senso della morale cristiana primaria dettata da una straziata pietà per i personaggi che mostra.

Si parla di spacciatori di droga periferici, che sono anche drogati, e delle loro donne, dei loro figli, del loro habitat, in una Ostia (già raccontata in Amore tossico: è evidente che il registra la conosce bene e sa di cosa parla) che è tanto assolata quanto squallida e provvisoria come tante periferie del mondo. L’ambiente e i personaggi sono pasoliniani (Accattone è il riferimento essenziale, ma anche Morte di un amico di Franco Rossi, scritto da Pasolini con Giuseppe Berto, per il legame tra i due protagonisti Cesare e Vittorio), però dimensionati in un oggi che è un eterno oggi, dove le storie si ripetono di padri in figli e di generazione in generazione, con le stesse ricorrenze.

Una società nemica; un potere generalmente distante e dimentico salvo che per una polizia che reprime senza che niente cambi; un ambiente – vedi le scene sui cantieri e sulla loro gestione – dove il lavoro è poco e non offre garanzie di sorta; donne supine che quando sono sveglie vengono presto ricondotte al loro essere secondarie anche nella marginalità, anche nella sofferta solidarietà con i loro uomini; bambini vittime o destinati a ripetere le gesta degli adulti. Un mondo vero, che sfioriamo quotidianamente, ma da cui siamo protetti solo per appartenenza di ceto o per la voluttà di un agire da servi, di una “carriera” da servi.

Non essere cattivo

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“La vita è dura e se non sei duro come la vita non vai avanti”, dice Cesare, il più mosso, nevrotico, aggressivo dei due amici. E “andarsene da tutta ’sta merda” è più facile a dirsi che a farsi. “I sòrdi ce vonno”, e di conseguenza lo spaccio, perché “tanta gente ce campa”. I cattivi non sono solo cattivi, e non sempre è colpa loro se lo sono. La differenza con tanti film e libri che hanno cercato di raccontare questo purgatorio senza uscita è che Caligari lo conosce bene e ama i suoi personaggi, anche i più trucidi, perché sa vedere oltre e dentro. Perché sa, mentre quasi sempre gli scrittori e i registi non sanno, cioè vedono con gli occhi di chi sta fuori e non pensano neanche lontanamente a farsi carico di quei dilemmi, di quella condanna. Non capiscono e non possono capire, ma sono loro a costituire le schiere della “cultura” e i complici o difensori di fatto di quest’ordine delle cose, quali che siano le loro opzioni ideologiche.

Resta da dire dei due splendidi attori che danno corpo e cuore a Cesare e a Vittorio, Luca Marinelli e Alessandro Borghi; delle giuste presenze femminili e di tutte le altre; del ritmo asciutto e ritmato del film, che procede per accumulo e non per astuzie di sceneggiatura; e della regia nervosa, tesissima e mai distante da ciò che narra: tutto ciò che rende Non essere cattivo diverso dal cinema melenso dei buoni e dei denunciatori, quello che riempie di sé, della propria ipocrisia, il cinema italiano, cioè romano: in questa Ostia non ci sono grandi bellezze, e neanche piccole e medie.

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