27 maggio 2017 13:35

Dei due degnissimi film italiani presenti al festival di Cannes e che, a fiuto, avrebbero certamente meritato di essere inseriti nel concorso molto più di tanti film “d’autore” (che oggi vuol dire alla moda), quello di Leonardo Di Costanzo, L’intrusa, che ho avuto il privilegio di vedere e che mi è sembrato molto bello e molto importante, uscirà dopo l’estate, mentre Cuori puri di Roberto De Paolis è già nelle sale (De Paolis è il figlio di Valerio, importante figura di produttore e distributore, diciamo pure una delle figure centrali del potere cinematografico nazionale; ma a noi questo non deve importare, secondo la vecchia e sacrosanta convinzione che è molto più importante dove si vuole andare che da dove si viene).

Narrare chi “sta sotto”
Ebbene, Cuori puri è un film molto bello, molto sincero, molto attuale, e presenta motivi di interesse sia cinematografici sia sociali, direi perfino storici, rispetto all’Italia di oggi. Ha dei padri o fratelli maggiori nel cinema contemporaneo, De Paolis, e i secondi forse più significativi dei primi, perché vi è evidente – per affinità ambientali e tematiche – l’appartenenza a un filone preciso del nostro cinema recente, quello che ha ripreso con forza a narrare il disagio di chi “sta sotto”, soprattutto la condizione dei giovani non di buona famiglia, non privilegiati per nascita, e l’ambiente delle periferie, quella romana in questo caso, quella napoletana nel film di Di Costanzo (ovvio che ci siano anche dei meschini profittatori di questa voga, nel mondo del cinema e anche in quello della letteratura e del giornalismo, senza dimenticare i coccodrilli della televisione, ma non vale la pena di parlarne: il salotto romano abbonda di tantissimi esempi di autori-parodia, di autori-sciacalli; ci si è fatta da tempo l’abitudine, e il giusto comportamento è quello, dal punto di vista della critica, di ignorarli, così come di ignorare i critici che non li ignorano).

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Su questa linea si sono cimentati di recente, in modi diversi, il compianto Caligaris e Claudio Giovannesi e, dentro il “genere”, Sollima, ma il film di De Paolis fa pensare ai primi e non al terzo, e soprattutto a Fiore per il suo rifiuto di dare una visione troppo amara della realtà, per l’ostinazione a cercare se non vie d’uscita almeno solidarietà, per il pudore e per l’amore portato ai personaggi, a quei marginali – milioni e milioni in tutto il mondo, e in numero crescente in Italia – e a quei giovani che più soffrono questa marginalità, con la disperazione di non avere di che e in che sperare.

Come Fiore, anche Cuori puri è una storia d’amore e, come L’intrusa, chiama in campo, anche se non gli dà la preminenza che ha nel film di Di Costanzo, un settore particolarmente significativo nell’Italia di oggi: quello di chi cerca in qualche modo di non seguire la corrente, i dettami e le illusioni diffusi dal potere.

Si parla dunque del cosiddetto volontariato, e più precisamente nel film napoletano degli “operatori sociali” e della loro funzione di mediazione, di sostituzione di uno stato e di una politika che hanno ammazzato il welfare (una sostituzione anche ambigua, poiché per tanti “buoni” si tratta di avere né più né meno che un’occupazione di sopravvivenza e per molte organizzazioni, le più astute e “quotate”, di setacciare denaro e affermare potere).

La società senza la politica
Nel film di Di Costanzo, l’aura ideologica che circonda gli operatori appare più laica, meno dichiaratamente religiosa, ma il sottofondo culturale dei più coscienti è comunque riconducibile a un ethos cristiano, l’unico rimasto anche in ragione dell’infinito tradimento attuato dall’ex sinistra dei valori sociali, socialisti, che la distinguevano guidavano giustificavano.

La presenza cattolica in Cuori puri è affermata con forza, doverosamente mostrata e dimostrata, una presenza forte e innegabile in una società senza politica, retta quasi sempre da classi dirigenti corporative ed egoiste quando non mafiose.

Ma ci sarebbe anche bisogno di opere che raccontassero le contraddizioni dei nostri cattolici, anche dei più bravi, ed è questa una cosa che si guardano bene dal fare gli intellettuali di quella parte (teologi compresi), privi come sono di senso del tragico e convinti della loro salvazione.

La storia d’amore dei due protagonisti Agnese e Stefano (il secondo interpretato con insolita misura e convinzione da Simone Liberati, una vera promessa) ne viene come irradiata, perché alla purezza dei loro sentimenti si aggiunge quella delle loro convinzioni, della loro morale privata e pubblica, per loro indisgiungibili, e più faticosa quella del giovane di quella della ragazza, perché Stefano si confronta con problemi più ardui dal punto di vista sociale, e di conseguenza anche dal punto di vista morale.

Resistere alle sirene
I modelli probabili del cinema di questo regista su cui davvero si può scommettere sono quelli dei fratelli Dardenne, per l’approfondimento, la rappresentatività e la riconoscibilità degli ambienti che sono sfondo e necessità del loro cinema, ma anche, imprevedibilmente, quello di Robert Bresson, perlomeno per la scena finale.

Non so quanto il regista si ritenga cattolico, ma se lo è si confronta con una tradizione più dura di quella dei Dardenne, con la sfida dei protagonisti di Bresson, quasi sempre giovani o giovanissimi, con l’altezza del loro confronto – anche quando persone comunissime – con l’arduità delle domande, con i perché dell’esserci e le ragioni e le scelte del proprio “che fare”.

Forse De Paolis non è ancora in grado di affrontare in modo adeguato i temi più gravi del nostro presente, le nostre incertezze più angoscianti e più vere, contro le quali chi “sta sopra” agisce perché le si dimentichi onde poter meglio imperare, ma ha il fiato per farlo e gli si augura di poter serenamente resistere alle sirene del successo e alla stupidità e supinità della cultura italiana di oggi.

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