25 marzo 2018 13:20

Habemus papas, uno alla camera una al senato, Roberto Fico, uomo, 44 anni, napoletano, ala movimentista del Movimento 5 stelle, già presidente della commissione di vigilanza sulla Rai il primo, Maria Elisabetta Alberti Casellati, donna, 71 anni, berlusconiana doc, già membro del Consiglio superiore della magistratura la seconda. La fumata bianca è arrivata alla fin fine ben prima del previsto, se si considera che i giornali usciti poche ore prima della proclamazione davano per saltati tutti i patti fra centrodestra e Cinque stelle e all’interno del centrodestra: sì che gli autori della ricucitura notturna, Salvini e Meloni in testa, possono rivendicare di aver lavorato bene per riempire in tempi ragionevolissimi almeno le caselle della seconda e della terza carica dello stato – anche se del governo non c’è certezza alcuna. I riti del resto, si sa, hanno il potere di lenire momentaneamente anche le ferite più sanguinanti: quando scatta l’applauso della proclamazione, prima alla camera poi al senato, tutte le tattiche, gli strappi, i candidati “sacrificati”, i traditori e i tradimenti, i forni doppi e tripli degli ultimi concitati giorni sembrano svanire nel nulla, anche se ovviamente restano lì e sulla formazione del governo rispunteranno fuori.

Per una volta, il risultato istituzionale rispecchia fedelmente il risultato elettorale: la ferrea legge dei numeri si è imposta su qualunque ipotesi di manovra fantasiosa - compresa quella, fantasiosissima, di lasciare il M5s senza niente in mano –, premiando i vincitori del 4 marzo, cioè la coalizione di centrodestra e i Cinque stelle, e penalizzando il grande perdente, cioè il Pd, rimasto fuori partita, peraltro, anche e soprattutto per scelta propria. Però in questo fedele rispecchiamento c’è già un evidente scatto rispetto al 4 marzo: la ferrea legge dei numeri si è imposta anche all’interno del centrodestra, consegnando Berlusconi a una posizione subordinata a Salvini. Malgrado l’abilità dell’ex premier nell’aprire la partita e nell’incassare comunque per Forza Italia la seconda carica dello stato, la regia del passaggio decisivo è stata indubitabilmente del leader leghista, il quale farà indubitabilmente di tutto per tenersela durante le trattative per il governo.

Il passaggio è simbolico oltre che politico: la partita, come al solito tutta maschile, sulla presidenza delle camere è stata anche una perfetta messa in scena del dispositivo edipico che da che mondo è mondo regola la trasmissione del potere tra uomini. Due giovani maschi alleati quanto basta per uccidere simbolicamente un padre, e pronti a rifarsi la guerra all’occorrenza: così Matteo Salvini, anni 45, in combutta con Di Maio, 32, ha inferto il colpo forse definitivo alla leadership di Berlusconi, 81, sul centrodestra. E gli va perfino dato atto di avere consumato il rito del parricidio con maggiore lealtà e coraggio di quanto abbiano fatto, o tentato di fare, altri prima di lui: sfidando il suo (ex) capo sul campo della caccia al voto prima e della trattativa parlamentare poi, non dichiarandolo fuori uso per decreto rottamatorio.

Il murales del bacio fra Di Maio e Salvini, che resterà l’immagine-simbolo di queste giornate malgrado la sua repentina cancellazione, condensa efficacemente questo rito maschile, classicamente accompagnato, va da sé, dall’uso strumentale di una donna – Anna Maria Bernini, la candidata “sacrificata” dal centrodestra al recupero dell’onore perduto da Berlusconi nella trattativa con Salvini e Di Maio – e dalla cooptazione altrettanto strumentale di un’altra donna, la neopresidente del senato, fidatissima “spalla” di Berlusconi ai tempi delle leggi ad personam e non solo. Alberti Casellati dedica la sua incoronazione alle donne e noi le facciamo gli auguri, ma senza dimenticare né le sue affermazioni su Ruby “nipote di Mubarak” né le sue posizioni favorevoli alla riapertura delle case chiuse e alla revisione della 194, e contrarie alle unioni civili. Ombre non tanto piccole sulla portata storica del primo insediamento di una donna nello scranno della seconda carica dello stato.

Non meno impressionante del resto è quello del primo grillino sullo scranno della terza. Riavvolgendo il nastro degli ultimi quindici anni, e soprattutto degli ultimi cinque, appare davvero sorprendente la breve marcia del M5s dentro le istituzioni, dall’apriscatole agitato nel 2013 al discorso presidenziale di Fico di oggi. Che guarda a sinistra almeno quanto Di Maio tratta a destra. Il richiamo autobiografico alle lotte per i beni comuni, la sottolineatura della ricorrenza dell’anniversario delle Fosse Ardeatine, il rilancio del ruolo del parlamento contro il potere esorbitante dell’esecutivo, l’insistenza sulla qualità della legislazione e sugli istituti di democrazia diretta valgono più dell’impegno di bandiera ad abbattere i vitalizi, e suonano come un buon inizio del viaggio.

Si vedranno presto le prossime tappe. Eletti i due presidenti, Gentiloni ha rassegnato le dimissioni. Mattarella aprirà le consultazioni per il governo subito dopo Pasqua. Non c’è niente di certo, e nulla di impossibile. L’asse fra centrodestra e Cinque stelle potrebbe consolidarsi, ma costringerebbe Di Maio in un ruolo secondo. Salvini potrebbe autonomizzarsi del tutto da Berlusconi, ma in un ruolo secondo ci finirebbe lui. In entrambi i casi, il bacio fra i due si trasformerebbe presto in un guanto di sfida, magari per elezioni ravvicinate. Ma il plot potrebbe essere tutt’altro, e prevedere nuovi scomposizioni e ricomposizioni del quadro: dentro il Pd, dentro Forza Italia, dentro la stessa Lega. Per ora, il gioco a tre del sistema tripolare si sta rivelando più interessante e imprevedibile di quello a due del bipolarismo che fu. La seconda repubblica sembra un ricordo lontano, e quanto al partito della nazione che avrebbe dovuto essere il perno della terza, l’ironia della storia ha voluto che fosse re Giorgio a seppellirlo nel suo discorso da presidente provvisorio del senato, menando fendenti contro Renzi e ammettendo la portata storica del risultato elettorale e della protesta anti-establishment che esprime. Chissà come sarebbero andate le cose, se ci avesse consentito di votare nel 2011.

Ma adesso è proprio un’altra stagione.

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