06 marzo 2020 11:18

Non era stato previsto da nessuno, nemmeno dal più accreditato sito americano di sondaggistica elettorale e vaticini politici, che il supermartedì potesse riconfigurare la corsa democratica alla nomination con la chiarezza con cui l’ha fatto, riducendo a due la pletora dei candidati, ribaltando il vantaggio di Bernie Sanders in quello di un resuscitato Joe Biden ed eliminando dalla gara l’insidia più grossa, cioè l’eventualità che le presidenziali americane potessero ridursi al duello fra due multimiliardari per il controllo di una democrazia trasformata definitivamente in plutocrazia. Ma a ben guardare, l’evidenza del risultato non fa che sottolineare i nodi irrisolti del campo che si oppone alla rielezione di Donald Trump. E se possibile, anzi, li annoda ancora di più, aumentando le responsabilità del Partito democratico americano in quella che è una battaglia politica e simbolica cruciale per le sorti della sinistra in tutto l’occidente.

Il dato decisivo della notte del supermartedì è arrivato alle due dal Texas, quando il vantaggio iniziale di tre punti di Sanders, dopo una progressiva discesa, si è ribaltato nel vantaggio di Joe Biden, assegnando lo stato col maggior numero di delegati dopo la California all’ex vice di Barack Obama. A quel punto la vittoria già netta di Biden su Sanders è diventata nettissima, ancorché stupefacente. Mentre il risultato – scontato a favore di Sanders – della California era ancora coperto dal fuso orario, Biden si era già aggiudicato non solo gli stati del sud – Alabama, Arkansas, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Virginia – che tutte le previsioni gli avevano attribuito sia pure con percentuali minori di quelle poi ottenute, ma anche alcuni stati del nord come il Minnesota e il Massachusetts che secondo le previsioni dovevano andare a Sanders, e dove Biden non aveva neanche fatto campagna elettorale. Il Minnesota, che Sanders aveva conquistato nel 2016, passava a Biden grazie all’endorsement della sua senatrice Amy Klobuchar, ritiratasi dalla gara presidenziale pochi giorni fa, mentre il Massachusetts voltava le spalle alla sua senatrice “radicale” Elizabeth Warren per consegnarsi al candidato centrista.

Due coalizioni sociali
A quel punto il Texas diventava decisivo non solo per una rimonta di Sanders, che invece non c’è stata, ma anche per precisare la composizione degli elettorati dei due front runner che escono dal supermartedì. Tradizionale roccaforte repubblicana, il Texas è uno degli stati americani in cui il cambiamento demografico dovuto all’aumento degli elettori di origine latinoamericana può tradursi in un trasloco politico nel campo democratico, e lo screening del voto è paradigmatico delle due coalizioni sociali rappresentate rispettivamente da Biden e da Sanders: hanno votato per Biden soprattutto i neri sopra i 30 anni e i bianchi sopra i 45, per Sanders i bianchi e gli ispanici sotto i 45, mentre quelli sopra i 45 si sono equamente divisi fra i due candidati.

Alla fine della conta Bernie Sanders incassa, oltre al suo Vermont, solo gli stati dell’ovest: il bottino della California – ma non si sa ancora con quali percentuali –, il Colorado, lo Utah. Non è poco ma non è nemmeno quello che ci si aspettava. E di converso, anche la rimonta di Biden è enormemente superiore rispetto a qualunque previsione. Un quadro della corsa democratica alla Casa Bianca su cui nessuno avrebbe scommesso fino al giorno prima.

Solo una settimana fa, Sanders svettava di fronte all’opposizione frantumata dei suoi avversari centristi e Biden era dato per spacciato: stracciato in Iowa e in New Hampshire, secondo in Nevada ma molto distanziato da Sanders; appariva stanco negli eventi pubblici e debolissimo nei dibattiti con gli altri candidati; aveva fatto una campagna elettorale debole e piena di performance a dir poco deludenti. Ma ha avuto ragione a non tirare le somme prima della vittoria in South Carolina, che lo ha rimesso in gara. Finché sono arrivati i due fattori decisivi della sua resurrezione nel supermartedì: il ritiro e l’endorsement di Buttigieg e Klobuchar (assieme a quello di altri maggiorenti locali), chiaro segnale di allineamento dell’establishment del partito democratico a contro il “pericolo” Sanders. E il voto dei suburban indecisi, evidentemente tanto rassicurati dalla promessa di Biden di “ritrovare l’anima della nazione” quanto scettici sulla “rivoluzione politica” evocata da Sanders.

Il tallone d’Achille di Sanders
Il compattamento contro Sanders dell’establishment democratico in preda al panico antisocialista ha avuto dunque certamente il suo peso. Ma non sarebbe giusto ricondurre solo a questo la vittoria di Biden. L’estensione superiore a ogni aspettativa del voto per l’ex vicepresidente indica con chiarezza che il grosso dell’elettorato democratico si è orientato in base al criterio dell’eleggibilità del candidato alla Casa Bianca, cioè della sua capacità di sconfiggere Trump, attribuendola a torto o a ragione al moderato Biden e non al suo concorrente social-democratico. Con altrettanta chiarezza l’omogeneità del voto per Biden degli afroamericani sopra i 45 anni mostra che il tallone d’Achille di Sanders è lo stesso del 2016, una scarsa capacità di penetrazione nella comunità nera malgrado i miglioramenti in questa direzione della sua campagna di quest’anno.

Non è un handicap da poco, visto il peso politico acquisito nel corso degli ultimi decenni dalla componente nera nell’elettorato democratico. Ed è un handicap che contrasta con la capacità coalizionale dimostrata da Sanders in Nevada nei confronti della nuova composizione della working class, si somma ai risultati deludenti del suo tentativo di portare alle urne le fasce astensioniste dell’elettorato giovane, e rinvia a una delle questioni di fondo che non solo il partito democratico ma tutte le sinistre occidentali hanno di fronte oggi e non riescono a risolvere: come si costruisce una coalizione sociale intersezionale, che non si limiti a una sommatoria di minoranze come fa la tradizionale politica dell’identità della sinistra americana né si affidi a un populismo riverniciato da sinistra, ma produca una spinta innovativa di soggettività politica, capace di promuovere e sostenere le trasformazioni che rivendica.

Elizabeth Warren esce di scena
Il sorprendente punto di svolta del supermartedì non porta tuttavia alla conclusione che i giochi siano bell’e fatti. È fuori di dubbio che Biden sarà ulteriormente avvantaggiato dalla rinuncia e dall’endorsement, corredato di una montagna di banconote, di Bloomberg, il cui fiasco – mezzo miliardo di dollari per qualche delegato delle Samoa – dimostra che la democrazia non è ancora tutta comprabile con la pubblicità in tv un tanto al chilo. Non è detto invece che Sanders possa a sua volta avvantaggiarsi della rinuncia di Elizabeth Warren: né i loro programmi né i loro elettorati sono immediatamente sovrapponibili, fra i due i rapporti non sono mai stati facili e un eventuale accordo non viene certo facilitato dalla volgarità degli inviti a levarsi di torno che a Warren sono stati rivolti da alcuni sostenitori di Sanders.

La parabola della candidatura di Warren resta comunque tutta da analizzare: la senatrice del Massachusetts ha fatto forse la campagna elettorale meglio argomentata quanto ai contenuti – e forse proprio per questo, in tempi di soluzioni facili a problemi complessi, non è riuscita a estendere il suo consenso al di là di un’élite illuminata –, ed è stata pesantemente penalizzata dall’insistenza sulla questione dell’eleggibilità, basata sul presupposto infondato che un macho come Trump possa essere sconfitto solo da un altro macho, come dimostrerebbe il precedente di Hillary Clinton che invece non dimostra nulla. Col risultato che nel campo democratico, all’inizio delle primarie abitato da molte donne, restano solo due uomini, bianchi e di età avanzata: una regressione non solo rispetto al 2016 ma anche rispetto al 2008. Ed esce di scena l’unica ipotesi di mediazione interna al partito democratico che sarebbe stata forse possibile se solo ce ne fosse stata una vaga intenzione.

Trump e l’ombra di Obama
Il vincitore del supermartedì resta comunque un candidato debole, a onta dell’investimento sulla sua eleggibilità da parte dell’establishment e del corpo elettorale del Partito democratico. La debolezza non sta solo nella sua età, nel suo moderatismo, nei suoi comportamenti scorretti con le donne da lui stesso riconosciuti, nella sua implicazione in alcuni scandali compreso l’affaire ucraino. È più precisamente il punto cieco della sua forza: l’altra faccia della capacità rassicurante della sua promessa di tornare alla “normalità” dell’epoca pre-trumpiana e alle speranze dell’epoca obamiana. Questa promessa tradisce l’illusione, purtroppo non solo di Biden, di poter mettere rapidamente in parentesi “l’eccezione” trumpiana senza fare i conti fino in fondo con le sue cause, con il suo radicamento, con i cambiamenti profondi che ha innescato nel sistema americano. E riporta a galla la necessità di fare i conti con l’ancora poco indagato rapporto che lega la nascita del trumpismo al doppio mandato di Obama, vuoi nei termini di una reazione suprematista alla prima presidenza nera, vuoi nei termini di un rinculo reazionario della delusione per le sue promesse di cambiamento non realizzate.

È forse proprio questo blocco nella comprensione del trumpismo che ne rende ancora arduo il superamento, e che rischia di fare delle presidenziali del 2020 una ripetizione di quelle del 2016. Non solo perché l’ipotesi nefasta di una conferma di Trump è sempre lì, anche dopo questo supermartedì. Ma anche perché troppe cose si ripetono nel campo a lui avverso, dal tallone d’Achille di Sanders alla “scelta sicura” che sarebbe rappresentata da Biden: come riassume una felice battuta, “Kerry, Al Gore, Hillary: tutte scelte sicure”, e tutte finite come si sa. L’unico scarto vero dal 2016 riguarda il Partito democratico, perché stavolta lo scongiuro contro “il socialista” potrà anche funzionare per tenerlo lontano dal partito e dalla Casa Bianca, ma incamerarne i voti potrebbe risultare molto, molto più difficile di quattro anni fa. E spuntarne le istanze di cambiamento del sistema con la camomilla del ritorno a tempi “normali” potrebbe rivelarsi una scelta letale per la sinistra non solo americana, e un rinnovato viatico per il sovranismo non solo trumpiano.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it