18 giugno 2015 15:36
Una manifestazione dei parenti delle vittime di maltrattamenti durante la detenzione: Lucia Uva, Ilaria Cucchi, Grazia Serra, Claudia Budroni, davanti alla corte di cassazione di Roma, il 12 luglio 2013. (Roberto Monaldo, Lapresse)

Lucia è la sorella di Giuseppe Uva, di mestiere gruista, morto esattamente in questi giorni (il 14 giugno 2008), nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, dopo aver passato una notte nella caserma dei carabinieri di via Saffi a Varese. Prima di raccontare la vicenda e il motivo per cui oggi, qui, vogliamo parlarne, descriviamo con alcune immagini il modo in cui Lucia ha visto suo fratello per l’ultima volta, steso sul tavolo dell’obitorio.

Lucia ha fissato il corpo di Giuseppe per oltre quindici minuti, incredula di quanto vedeva: suo fratello era irriconoscibile.

Cominciamo dal viso. Una grossa tumefazione viola ricopriva il suo naso, la nuca, al tatto, era segnata da un bozzo gonfio. Scendendo lungo il corpo, si trovava un livido enorme sulla mano e il fianco era attraversato da lunghe strisce viola. Ma la cosa più importante, l’elemento inspiegabile e tuttora inspiegato, era rappresentato da quel pannolone bianco da adulto incontinente che gli cingeva i fianchi: a spostare i lembi, di quel pannolone, si vedevano i testicoli tumefatti e una traccia di sangue che fuoriusciva dall’ano.

Una scena terrificante, un corpo martoriato che fino a poche ore prima era vivo, pulsante e libero.

Ed ecco allora il racconto delle ultime ore di vita di Giuseppe Uva, reso possibile grazie alla testimonianza dell’amico che quella sera era con lui, Alberto Biggiogero.

Le ultime ore di Giuseppe Uva

È un venerdì, il 13 giugno 2008, e in tv ci sono gli Europei di calcio. Alberto e Giuseppe guardano insieme la partita dell’Italia prima di uscire. Poi vanno al solito bar, bevono vino, incontrano altri amici con cui passano qualche ora. Hanno bevuto tutti e due e tornano verso casa a piedi ed è a quel punto che si accorgono di alcune transenne accatastate all’angolo di una strada.

Giuseppe e Alberto, euforici a causa dell’alcol, spostano le transenne in mezzo alla strada bloccando il traffico. È a questo punto che vengono avvistati da una pattuglia dei carabinieri. Da qui in poi, tutto quello che raccontiamo è riportato nella denuncia depositata da Alberto Biggiogero il giorno dopo la morte di Uva.

La pattuglia è formata da due carabinieri e uno dei due esce dalla macchina con lo “sguardo stravolto e terrificante”. Il militare comincia a inseguire Giuseppe urlando “Uva, proprio te cercavo questa notte, questa non te la faccio passare liscia, te la faccio pagare”. Comincia qui un breve inseguimento, in cui Uva scappa seguito dai carabinieri e dallo stesso amico.

Quando anche Biggiogero li raggiunge, fa in tempo a vedere i militari scaraventare Uva a terra. Biggiogero prova a mettersi in mezzo per calmarli, ma non c’è niente da fare: a furia di calci pugni e spintoni, i due uomini vengono fatti salire su due diverse automobili (Uva su quella dei carabinieri, Biggiogero su una volante della polizia arrivata successivamente).

Le auto si dirigono alla caserma di via Saffi e vengono raggiunte da altre due pattuglie della polizia, che rappresentano tutto il presidio notturno della città di Varese per quella notte e che si concentrano in quella caserma. Uva e Biggiogero vengono separati: il primo in una stanza, il secondo in sala d’aspetto. Da quella posizione, Bigioggero può sentire le urla prolungate del suo amico e le numerose richieste d’aiuto: da quella stanza, entrano e escono, alternandosi, i due carabinieri e i sei poliziotti. Biggiogero, insultato e minacciato dagli uomini in divisa, è lasciato solo. Ha ancora con sé il cellulare e chiama il 118 per richiedere l’intervento di un’ambulanza. La seguente conversazione è agli atti dell’indagine e la riportiamo integralmente (audio originale delle telefonate con i sottotitoli).

118: 118.

B: Sì buonasera sono Biggiogero posso avere un’autolettiga qui alla caserma di via Saffi dei carabinieri?

118: Sì, cosa succede?

B: Eh, praticamente stanno massacrando un ragazzo.

118: Ma in caserma?

B: Eh sì.

118: Ho capito. Va bene adesso la mando eh.

B: Grazie.

118: Salve salve.

B: Salve.

L’uomo che risponde al centralino del 118, però, ritiene opportuno chiamare la caserma, prima di fare intervenire l’ambulanza:

Carabinieri: Carabinieri

118: Sì salve, 118

Carabinieri: Sì?

118: Mi hanno richiesto un’ambulanza. Non so mi ha chiamato un signore dicendo di mandare un’ambulanza lì da voi, me lo conferma?

Carabinieri: No, ma chi ha chiamato scusi?

118: Un signore. Mi ha detto che lì stanno massacrando un ragazzo e che voleva un’ambulanza.

Carabinieri: Un attimo che chiedo.

(dopo qualche minuto)

Carabinieri: No guardi son due ubriachi che abbiamo qui in caserma, adesso gli tolgono il cellulare. Se abbiamo bisogno ti chiamiamo noi

118: Sì sì non ti preoccupare, ci mancherebbe, ho chiesto. Ciao ciao.

Dopo questo assurdo dialogo telefonico, effettivamente il carabiniere torna nella stanza dove si trova Biggiogero e gli sequestra il cellulare, anche se l’uomo fa in tempo a chiamare il padre perché venga a prenderlo.

L’ambulanza, ovviamente, non arriva, e dopo circa venti minuti fa la comparsa in caserma un dottore della guardia medica il quale propone per Uva un Trattamento sanitario obbligatorio.

La motivazione del provvedimento coatto sarebbe l’autolesionismo: Uva si starebbe facendo male da solo sbattendo corpo e testa contro le sedie, la scrivania, gli stivali degli uomini presenti nella stanza (in una deposizione dei militari, troviamo questo passaggio: “Il collega frapponeva il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del pavimento”). È l’alba del 14 giugno, Giuseppe Uva viene ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale. Morirà intorno alle 11 di mattina.

Come si è detto, il giorno dopo Alberto Biggiogero deposita un esposto per denunciare i fatti di quella notte. Oltre al suo racconto, l’agente del posto di polizia dell’ospedale sequestra gli indumenti di Uva, tra cui i jeans, macchiati di sangue su tutta la parte posteriore.

Il fascicolo finisce in mano del pubblico ministero Agostino Abate e, da quel momento, passeranno anni di infiniti rinvii, omissioni, irregolarità all’interno di un’inchiesta che produrrà un primo, lungo e inutile processo per colpa medica.

La tesi accusatoria è la seguente: i sanitari dell’ospedale avrebbero somministrato a Uva medicinali incompatibili con il suo stato etilico. Da quel processo i tre imputati usciranno assolti con formula piena, mentre i carabinieri e i poliziotti non saranno nemmeno ascoltati, così come il testimone oculare Alberto Biggiogero.

Ben tre giudici, nei vari dispositivi emessi in quei primi anni di processo, intimeranno al pm Abate di indagare sui fatti accaduti all’interno della caserma. L’ostinato rifiuto ad adempiere questo suo primario dovere, gli costerà un atto d’incolpazione da parte del procuratore generale presso la corte di cassazione e una assai controversa azione disciplinare da parte del Consiglio superiore della magistratura conclusasi con un nulla di fatto.

In città prevale il senso comune

Veniamo ai giorni nostri. Il fascicolo è stato definitivamente tolto al pm Abate e il giudice per le indagini preliminari ha disposto l’imputazione coatta per i due carabinieri e i sei poliziotti, accusati, tra gli altri reati, di omicidio preterintenzionale.

Il processo è cominciato in corte d’assise il 20 ottobre 2014 e procede lentamente e contraddittoriamente, in un clima tutt’altro che rasserenante. Non è una novità. Ciò che colpisce, infatti, è il senso comune che sembra prevalere in città. Con un eufemismo possiamo dire che da quel giugno del 2008 non è proprio accaduto che Varese “si stringesse intorno alla famiglia Uva”.

All’interno di una comunità relativamente piccola (80mila abitanti) accade un fatto a dir poco lacerante: un giovane uomo entra vivo in una caserma dei carabinieri, vi viene trattenuto illegalmente, ne esce in ambulanza per morire dopo poche ore in un reparto ospedaliero.

Seppure tutto ciò fosse dovuto al caso, sarebbe stato interesse della comunità conoscere precisamente e puntualmente i dettagli di quella morte. E invece, a distanza di tanti anni, non c’è alcuna certezza sulle cause della fine di Giuseppe Uva. Per capirci, non ci sono una sentenza o un referto definitivi in grado di escludere che Uva sia morto proprio a motivo di quanto è accaduto in quella caserma, ma nemmeno una credibile ipotesi su altre possibili cause.

Eppure la città, le sue istituzioni, la grandissima parte dell’opinione pubblica, i mezzi di comunicazione, gli intellettuali e i partiti politici, i sindacati e le associazioni (con qualche esilissima eccezione) non hanno battuto ciglio.

La solidarietà nei confronti dei familiari di Giuseppe Uva è stata tardiva, scarsa, occasionale. Le iniziative pubbliche e le conferenze stampa sono risultate poco frequentate e stendiamo un velo sull’atteggiamento dei quotidiani locali. In questo clima la procura e il tribunale sono apparsi come istituzioni lontane, imbarazzate da una vicenda che probabilmente mette in discussione antiche solidarietà, rinegozia alleanze interne e ne crea di nuove, altera le gerarchie di sempre, senza consentire un autentico rinnovamento.

Pigrizia e conformismo, ossequio verso le autorità – e in una città come Varese i carabinieri sono tra le autorità più temute – e, su tutto, l’obbedienza al monito antico: sopire, troncare. Ciò ha consentito al pubblico ministero Agostino Abate di trattenere a sé il fascicolo fino a un anno fa e dopo che solo l’atto di incolpazione della corte di cassazione lo aveva indotto ad ascoltare il testimone oculare, a distanza di cinque anni e mezzo dai fatti.

D’altra parte, Giuseppe Uva era “solo un gruista”, il cui “stile di vita” sarebbe stato testimoniato dal fatto di non indossare mutande (cosa puntualmente smentita dalla testimonianza degli infermieri che dichiararono di aver tagliato lo slip con le forbici e di averlo buttato perché intriso di sangue).

Quest’ultimo dettaglio è significativo: è molto difficile, per chi non segue i processi, immaginare quale possa essere il linguaggio giudiziario, quale il genere letterario frequentato da un pubblico ministero, quale il peso maleodorante del pregiudizio scaricato su una vittima (dello “stile giudiziario” del procuratore Abate si ha conferma in molti passaggi della testimonianza di Luigi Manconi, ascoltato come “persona informata dei fatti” dallo stesso pm).

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Ecco, queste sono le premesse attraverso le quali si arriva all’attuale dibattimento. E sembra proprio che tutto quel bruttissimo pregresso continui a condizionare l’attuale svolgimento: gli atteggiamenti degli attori, le modalità con cui vengono trattati i familiari di Uva e i testimoni vulnerabili come Biggiogero: qualcosa che ricorda i versi dell’antologia di Spoon River adattati e musicati da De André.

Eppure, in questa storia terribile di dolore e morte, emerge un dato impossibile da ignorare. Nell’assenza delle istituzioni, nella complicità di molti dei mezzi d’informazione, nell’indifferenza di gran parte della cittadinanza, una donna, pressoché da sola, ha reso possibile che questa storia non diventasse uno dei tanti fascicoli archiviati a prendere polvere negli scantinati di qualche tribunale.

Quella donna si chiama Lucia Uva, e il fatto che si tratti di una donna ci pare determinante. La sua storia non è così rara. Negli ultimi anni, e facendo un elenco che purtroppo non esaurisce una lunga teoria di tragedie, possiamo ricordare Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Michele Ferrulli, Aldo Bianzino, Marcello Lonzi, Dino Budroni. Accanto ai loro nomi, si ritrovano quasi sempre quelli delle loro madri o figlie o sorelle o mogli: Patrizia Moretti, Ilaria Cucchi, Domenica Ferrulli, Roberta Radici, Maria Ciuffi, Claudia Budroni.

In tutte queste vicende c’è una costante: una donna che assume suo malgrado il ruolo di protagonista. Figura tragica, ma non di vittima. Perché accade questo? Le ragioni sono molte.

Emerge un forte e intelligente senso della giustizia offesa e del diritto negato, che si traduce in domanda di verità

Le donne stanno là, dove si manifesta più forte il vincolo profondo e intimo costituito dal legame di sangue. Ed è il genere femminile che tende a vivere con maggiore intensità quel legame. In qualche misura, la donna resta – al di là dei cambiamenti culturali e dei processi di emancipazione – la custode degli affetti familiari e la garante della loro persistenza nel tempo. Quel ruolo pubblico di madre, moglie, figlia, sorella di qualcuno che ha perso la vita attribuisce forza morale e responsabilità.

Avviene qualcosa che porta quelle madri mogli figlie e sorelle ad agire. Quell’agire, nella gran parte dei casi, non ha nulla di autocommiserevole. Anche nelle manifestazioni più dolenti dello strazio i toni si mantengono, in genere, controllati, le parole misurate, il discorso – l’atto di accusa, quando c’è – si muove sul piano razionale.

Emerge un forte e intelligente senso della giustizia offesa e del diritto negato, che si traduce in domanda di verità. Ed è proprio questo che fa Lucia Uva: parla come una cittadina consapevole, che esige giustizia e non invoca mai vendetta (così come mai l’hanno invocata Patrizia Moretti Aldrovandi, Ilaria Cucchi, Domenica Ferrulli e le altre).

E questo non accade per una presunta bontà d’animo, ma perché quelle morti sono avvenute a seguito di situazioni assai complesse, dove si intrecciano – all’interno delle istituzioni statuali e degli apparati di polizia – reati e negligenze, atti criminali e omissioni di soccorso, irregolarità e abusi, colpe professionali e ottusità burocratiche.

E dove operano più soggetti, con diverse competenze e diversi livelli di responsabilità, tenuti insieme da rapporti di correità o da vincoli di omertà, spesso tutelati da una catena di comando di cui è difficile individuare l’anello collocato al livello più alto. Da qui discende che l’affermazione più frequente – la domanda e l’impegno di Lucia Uva, in questo caso – diventi: “Voglio sapere come è morto”.

Quel “come è morto” è, effettivamente, il quesito più drammatico che attraversa la vicenda di Giuseppe Uva. E quanto fatto in questi anni da Lucia Uva corrisponde a un vero e proprio conflitto “per la verità”, mentre lo stato, le sue istituzioni e i suoi apparati risultano essersi comportati come una sorta di Sistema della Menzogna, della Dissimulazione e dell’Occultamento.

È anche questo, probabilmente, che in tanti lunghi anni ha sollecitato e sostenuto quell’azione così particolare svolta da Lucia Uva: una battaglia per la giustizia contro l’iniquità, e – in qualche modo – per la vita contro la morte. Essere sorella della vittima attribuisce una titolarità di ruolo, ma rappresenta appena una premessa. Ciò che è avvenuto dopo (e che avviene per tutte le altre storie prima citate) è davvero sorprendente e straordinario: Lucia Uva è stata capace di trasformare il suo dolore più intimo in una risorsa pubblica.

Partendo dalla sofferenza, patita nella sfera più profonda e privata, si è fatta soggetto di una iniziativa che va assai oltre il legame familiare. È diventata attore pubblico e, a suo modo politico, portando energia e innovazione alla politica stessa. Semmai quest’ultima volesse ascoltare. Se così facesse, infatti, la politica potrebbe trovare nelle vicende di Lucia e delle altre, una trama di tensioni e di passioni preziose per la politica stessa.

È per ciò che dispiace davvero molto che questa donna, con la sua storia e il suo dolore, il suo impegno e la sua speranza, in quell’aula di tribunale – ieri come oggi – si sia trovata così spesso sola.

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