01 settembre 2016 14:59

Non è mai stato facile dire qualcosa, soprattutto se l’interlocutore non ci stava davanti ma era lontano nel tempo o nello spazio. Ma ci abbiamo provato, e a poco a poco ci siamo riusciti. In principio furono disegni, bisonti nella caverna: forme inaugurali per rappresentare qualcosa che non c’era, prime espressioni di un racconto senza parole. Con il tempo (migliaia e migliaia di anni) i disegni si sono sistematizzati: gli ideogrammi sono abbozzi che rappresentano concetti (un uomo, un sole, un sorriso, una casa), e la loro combinazione raccontava storie complesse.

Passò ancora del tempo, e gli ideogrammi non rappresentarono più concetti, ma parole (uomo, sole, sorriso, casa): i geroglifici sono questo. Poi fu la volta dei suoni di queste parole, che potevano combinarsi a formarne altre: i logogrammi cinesi. Fino a quando non escogitammo un sistema più astratto e più esatto.

I mediorientali immaginarono che ogni disegno poteva corrispondere a un suono preciso e inventarono quel potente marchingegno che chiamiamo lettere: poco più di una ventina di semplici tratti che rendono possibili tutte le storie.

Le lettere si imposero, e pensammo che l’ideogramma fosse un passato molto passato. Non esattamente: abbiamo continuato a usarne alcuni. I numeri, per esempio: il 7 o il 2 sono disegni che evocano un concetto, non un suono che insieme ad altri suoni forma una parola. Per questo i numeri sono universali: 7 si legge sette, seven, sept, liczba. Ci sono anche ideogrammi più nuovi, come lo stop, il verde dei semafori, il segnale di silenzio degli ospedali o il sole delle previsioni del tempo.

Gli emoji hanno sostituito un numero crescente di parole: sono diventati una maniera di esprimersi imprecisa ma efficace

Le cose sono andate così fino all’entrata in scena dei giapponesi. Era da un bel po’ che il Giappone aveva smesso di inventare delle cose per il mondo: dall’epoca del walkman e del sushi, per dire. Ma nel 1998 Shigetaka Kurita, programmatore di un’azienda di cellulari, tracciò dei disegni semplificati ispirandosi ai manga, e li chiamò emoji: “e” significa immagine, “moji” lettera.

Gli emoji (e gli emoticon) hanno avuto un’ascesa inarrestabile, di quelle possibili nel mondo digitale. In pochi anni hanno sostituito un numero crescente di parole: sono diventati una maniera di esprimersi imprecisa ma efficace, facile da leggere, simpatica, perfettamente ineducata. L’anno scorso, l’Oxford Dictionary ha scelto come parola dell’anno la “faccia con lacrime di gioia”, perché voleva dare un riconoscimento al potere degli emoticon e quello era stato il più usato.

Gli emoji seguono la tendenza dei nostri giorni: come i semi o i farmaci, appartengono a chi li ha progettati. Finora si sceglievano su quegli schermi straripanti di tondi gialli; adesso la Apple ci fa sapere che presto potremo digitare sul nostro telefono, quell’apparecchio che un tempo serviva per parlare: “Pallacanestro finisce alle cinque. Dopo pizza o tacos. Magari andiamo al cinema. Vieni?”, e il telefono sostituirà, se glielo chiedo, pallacanestro con il pallone arancione, pizza con un trancio di margherita, cinema con la macchina da presa, e così via.

Il telefono più intelligente saprà che, nella comunicazione contemporanea, i disegni vogliono sostituire le lettere, la vaghezza sostituire la precisione, gli accenni sostituire la descrizione e alla fine si metterà alla nostra guida. I suoi difensori attribuiscono agli emoji l’antico vantaggio dei pittogrammi: sono una semplificazione, li capiscono tutti, ci avvicinano a un linguaggio universale. Ma è anche vero che non favoriscono la comunicazione: parliamo solo di cinema, pizza e sport, e taciamo sul resto.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano spagnolo El País.

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