21 febbraio 2017 11:09

“Se non vi arrabbiate, vuol dire che non siete attenti”, dice un vecchio slogan che è riapparso spesso nelle proteste contro la presidenza di Trump, detto anche “Pozzo senza fondo di ossessioni”. Da una parte lo capisco, ma dall’altra mi è sempre sembrato sbagliato. Di questi tempi, essere arrabbiati con i politici tende a sostituire l’azione: è un’esperienza emotiva che crea assuefazione e ci illude che stiamo facendo qualcosa, mentre in realtà non è altro che un diversivo.

Il problema peggiora sui social network, che ci propinano una immensa quantità di cose per cui vale la pena di arrabbiarsi, ma poi ci spingono subdolamente a pensare che reagire con una battuta pepata – o cliccare ripetutamente mi piace sui commenti degli altri – sia di una qualche utilità.

Raramente lo è. L’esito più probabile di questi comportamenti è “l’impotenza appresa”, termine coniato dallo psicologo Martin Seligman in seguito agli esperimenti con le scosse elettriche che aveva condotto negli anni sessanta sui cani. Una parte degli animali aveva la possibilità di interrompere le scariche premendo una leva. Gli altri, quelli che non ce l’avevano, imparavano subito che qualsiasi iniziativa prendessero non faceva nessuna differenza, e continuavano a comportarsi come se fossero impotenti anche quando, nella seconda fase dell’esperimento, avevano la possibilità di evitare le scosse. Quando arrabbiarsi non porta mai a nulla, alla lunga subentra lo scoraggiamento. Il che è molto comodo, dal punto di vista dei politici che ispirano tutti quei titoli di giornale che ci fanno arrabbiare.

Adattarsi al peggio
“Se cerchiamo di mantenere quel livello febbrile di angoscia, paura e indignazione, il nostro cervello, per proteggerci, abbassa semplicemente il volume della rabbia e si adatta”, ha scritto in proposito qualche giorno fa sul sito web di Medium l’avvocata e scrittrice Mirah Curzer. Siamo indotti a pensare che l’unico modo per opporci alla “normalizzazione” di cose terrificanti sia rimanere costantemente infuriati. Se fremiamo dalla rabbia – ci dice la logica – non rischiamo di diventare acquiescenti.

Il guaio, secondo Curzer, è che anche le emozioni si normalizzano (a causa dell’ormai noto “adattamento edonico”, per cui le cose nuove ed entusiasmanti a lungo andare ci sembrano banali, e certe situazioni terrificanti prima o poi non ci fanno più soffrire). Perciò non è egoistico, anzi forse è proprio nostro dovere, ogni tanto prendere le distanze dall’orrore e continuare la nostra vita, specialmente nei suoi aspetti più piacevoli. Chiamiamolo “prenderci cura di noi stessi”, se vi piace questa brutta espressione, ma è anche un modo per evitare che le nostre emozioni si appiattiscano.

È strano pensare che “angoscia, paura e indignazione” possano creare assuefazione: di solito riserviamo questo concetto a esperienze che, almeno all’inizio, sono piacevoli. Ma come hanno sempre sostenuto i buddisti, l’avversione e il desiderio sono due facce della stessa medaglia: sia che moriamo dalla voglia di qualcosa o che la detestiamo per qualche motivo, si tratta sempre di un’ossessione.

Se vogliamo lanciare una campagna contro qualcuno o qualcosa, saremo molto più efficaci se riusciamo a mantenere un certo distacco invece di lasciarci trascinare in un futile turbine di rabbia, che va unicamente a vantaggio dei nostri avversari. È come rafforzare un muscolo. Potremmo chiamarlo addestramento alla resistenza.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it