06 ottobre 2018 09:49

Dovremmo cancellare subito i nostri account sui social network? Il titolo dell’ultimo libro di Jaron Lanier, Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, non lascia dubbi su qual è la sua opinione in materia. Secondo lui, Facebook, Twitter e tutti gli altri social ci hanno risucchiato in una spirale di indignazione, estremismo e isolamento che crea dipendenza e rende ancora più difficile guadagnarsi da vivere alle persone – come musicisti, artisti, giornalisti – che creano la cultura che sfruttano.

Ma più questa posizione diventa popolare, più cresce un’obiezione: per molti, è impossibile farlo. “Quello che non capiscono i fautori di #DeleteFacebook”, scrive l’attivista Jillian York, è che “per molti, lasciare i social network è un lusso che non si possono permettere”. Che ci piaccia o no, ci sono persone che contano su internet per gestire un’impresa, rimanere in contatto con amici e familiari, se non addirittura mantenere la loro salute mentale grazie all’aiuto di gruppi di sostegno online. Chiedergli di soddisfare questi bisogni altrove non è realistico, perché tutti gli altri li soddisfano su Facebook. Chi ha la possibilità di rinunciarci è un “privilegiato”, scrive April Glaser in un saggio pubblicato su Slate. È anche un ulteriore tentativo di predicare l’autodisciplina, scrive Steph Mitesser, mentre il vero problema sta nel capitalismo e nella brama di profitti di aziende non sufficientemente regolamentate.

A rendere più spinosa la questione è il fatto che quest’ultima affermazione è verissima, ma rappresenta anche una comoda scusa. Quando siamo dipendenti da qualcosa, ovviamente diamo più ascolto alle opinioni che ci dicono di non rinunciare a quella dipendenza. Perciò, anche se effettivamente alcune persone rischiano l’isolamento sociale cancellandosi da Facebook, o la rovina professionale lasciando LinkedIn, è probabile che noi non siamo una di quelle persone – anche se siamo sicuri di esserlo. È più probabile che ci stiamo raccontando questa storiella per non privarci dell’effetto confortante e sedativo dei social network, e dover rimanere da soli con i nostri pensieri.

Naturalmente, per me è facile dirlo (e un po’ ipocrita, dato che sono ancora su Twitter, e più o meno anche su Facebook). Ma questo non significa che sia sbagliato. A volte il consiglio superficiale che per un columnist è facile dispensare, è quello giusto per noi, anche se preferiremmo che non lo fosse.

Questo rientra nel rischio più grosso che corrono le persone di sinistra quando si confrontano con il mondo dell’autoaiuto: siamo così portati a vedere le cose in termini strutturali – come questioni di privilegio e di potere – che ci convinciamo di essere più impotenti di quanto non siamo in realtà. A ogni “consiglio per essere felici”, dalla disintossicazione digitale alla meditazione alla psicoterapia, è facile rispondere che quello di cui abbiamo veramente bisogno è una società più umana, e qualsiasi forma di autoaiuto non serve ad altro che a farci accettare lo status quo. Sono abbastanza d’accordo su questo, ma il vero pericolo è quella che Jean-Paul Sarte chiamava “malafede”, che ci porta a convincerci di non avere scelte, mentre in realtà le abbiamo, perché la libertà ci fa più paura.

La verità è che potremmo decidere di rinunciare subito ai social network, o a molti altri aspetti della nostra vita che non ci soddisfano. Ma potremmo anche decidere di non farlo, perché siamo arrivati alla conclusione che nel nostro caso i lati positivi superano quelli negativi. Comunque, una scelta ce l’abbiamo. Anche convincerci di non avere scelta è una scelta.

Consigli di lettura
In uno dei suoi libri precedenti, Tu non sei un gadget, del 2010, Lanier anticipa l’idea che il web ci sta portando verso il “maoismo digitale”, un collettivismo che mina la nostra individualità e scivola facilmente nell’oclocrazia, o dominio delle masse.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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