08 luglio 2018 10:12

Da qualche mese mi sto dedicando al compito donchisciottesco e immenso di creare un ragionamento sull’esistenza in-esistente del corpo trans. Non lo faccio per motivi altruistici, ma perché è il ragionamento a consentire l’esistenza stessa di chi si trova ai margini dell’anatomia e della legge.

Uno dei parametri che costituiscono la soggettività trans (rispetto al corpo naturalizzato e normalizzato dei cisgender, le persone che s’identificano al genere che gli è stato assegnato alla nascita) è l’impossibilità di costruirsi senza riferimento a un elemento (oggetto, organo, nome, tecnologia, istituzioni o altro) che non ci è stato dato, e che non ci appartiene: un oggetto o un organo che si afferma come radicalmente altro e che, tuttavia, rivendichiamo come al contempo universalmente possibile e singolarmente nostro.

Un senso di ospitalità
Il corpo trans intrattiene una relazione di alterità riappropriata con i suoi propri (impropri) organi sessuali, e più specificatamente con quest’organo che la medicina continua a chiamare protesi e che noi chiamiamo nostro corpo.

Con l’oggetto, ricostruisco un altro corpo, allargato o trasformato e che, per un momento, agisce e vive. Incorporare l’oggetto significa rifiutare la propria condizione di cosa, insistere per integrarla come vivente. Da questo deriva il senso d’ospitalità che percepisco nei confronti della protesi, fino a considerarla un organo effimero ed esternalizzabile del mio corpo.

La psicologia occidentale parla di “feticismo” per designare questa relazione del corpo sessuale con ciò che essa considera un semplice oggetto. Secondo questa grammatica, il feticismo sarebbe un modo patologico di ottenere un piacere attraverso l’erotizzazione dell’oggetto. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm IV) definisce ancora il feticismo come una “parafilia”, una perversione o una deviazione del desiderio sessuale nel quale il soggetto insiste nell’integrare un oggetto inerte o un organo non genitale al circuito di produzione del piacere sessuale.

Il soggetto sposta la centralità della penetrazione genitale bio-pene/ bio-vagina e si rivolge a un oggetto, un’immagine o un organo non genitale con cui entra in relazione sessuale. Leggo con ammirazione la lista delle “parafilie per il feticcio” del Dsm: retifismo o feticismo dei piedi, così definito in riferimento a Restif de la Bretonne; belonefilia, feticismo degli aghi; toonofilia, feticismo dei cartoni animati; agalmatofilia, feticismo dei manichini; dacrifilia, feticismo delle lacrime e del pianto e così via. La lista è lunga ma concedetemi di citare la mia preferita: la brontofilia, il feticismo delle tempeste.

Il feticismo ci mostra la portata delle limitazioni che la modernità occidentale ha imposto alla pulsione vitale

Ho passato in rassegna questa lista pensando che la penosa storia sessuale dell’umanità trova nel feticismo la sua versione più concettuale e poetica, l’unica degna di un approccio artistico. Mi chiedo allora, e lo chiedo ai colleghi psicologi, se sia possibile continuare a usare oggi la nozione di feticismo come categoria diagnostica e di trattamento clinico.

Io ritengo che, lungi dall’essere un segno di deviazione o di perversione, il feticismo ci mostra la portata delle limitazioni che la modernità occidentale, impegnata a fabbricare un’esperienza sessuale civilizzata, ha imposto alla pulsione vitale.

E se le nozioni inventate dalla psicologia, avendo come obiettivo apparente quello di conoscere e curare, non fossero che gli strumenti di un’operazione culturale di distruzione, di sterilizzazione e di assoggettamento? I concetti che le nostre discipline moderne usano per spiegare e classificare l’esperienza sessuale, per comprendere la costruzione e la soggettività normale e patologica, sono segnati dalla violenza coloniale.

“Feticcio” è il nome che i primi colonizzatori portoghesi diedero, nel corso del quindicesimo secolo, agli oggetti cui gli abitanti della costa occidentale dell’Africa attribuivano un valore singolare, facendone gli elementi fondamentali di un rituale nel quale la differenza tra vivi e morti, organico e inorganico, animale e umano, andava oltre le tassonomie del pensiero medievale cristiano. “Feticcio” era il nome che i mercanti coloniali e i missionari europei assegnavano a questi oggetti relegando i rituali al rango di pratiche di stregoneria, di esperienze primitive e patologiche, che andavano sterminate.

Di mano in mano
Nell’immaginario coloniale, la nozione di feticismo è servita a legittimare lo schiavismo e le politiche imperiali. La ragione occidentale ha tolto autorevolezza alla relazione rituale ed erotica con l’inorganico, qualificandola come stregoneria, patologia e primitivismo, ma salvandola più tardi, solo in momenti eccezionali e attraverso la legittimazione del mercato e dell’accademia, in quanto “arte”.

Nella modernità coloniale, il feticcio passa di mano in mano: dal viaggiatore Charles de Brosses all’economista William Petty, da questi a Kant, da Kant a Hegel, da Hegel ad Auguste Comte, fino ad arrivare a Marx nel 1842, per il quale diventa “il feticismo della merce”, concetto centrale della critica socialista al capitalismo. Se è già interessante il fatto che la relazione africana con la materia inorganica sia stata assimilata a una pratica religiosa sacrilega e alla stregoneria, come una patologia economica e politica, è ancora più affascinante che questa nozione sia diventata un concetto-chiave della psicologia sessuale moderna.

Nel 1887 lo psicologo Alfred Binet, noto soprattutto come l’inventore del primo test di misurazione dell’intelligenza, scrisse Il feticismo in amore, un breve trattato in cui ha caratterizzato come patologico lo spostamento dell’istinto sessuale degli organi genitali verso un oggetto. Qualche anno dopo, Freud farà del feticcio la chiave per comprendere la differenza tra l’eterosessualità e la perversione: i feticisti trattano gli oggetti in quanto feticci, mentre per gli eterosessuali il pene e la vagina diventano gli unici e validi feticci. Freud trae così spunto dalla violenza coloniale che ha inventato il feticcio e la erige al rango di salute mentale. Cosa sarebbe potuta essere la nostra sessualità se Freud fosse stato africano?

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Libération.

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