“Ho le idee chiare, io”, non fa che ripetere l’editore Fausto Di Salvio al fedele ragioniere Ubaldo Palmarini (Ubaldo, Ubaldino) durante la ricerca del loro amico, Oreste Sabatini (dirigente du camion), misteriosamente scomparso in Africa. Tranne alla fine, quando Oreste sceglie una vita avventurosa invece di mettersi le pantofole e godersi l’ultimo scorcio del boom economico. A quel punto l’editòr Di Salvio ammette di non avere più le idee chiare. Poco prima c’è una bellissima inquadratura in cui compaiono Manfredi e Sordi in primo piano. Una grande sintesi. È senz’altro uno dei miei momenti preferiti del cinema di Ettore Scola.
Quando è uscito negli Stati Uniti, tra ottobre e novembre, Steve Jobs di Danny Boyle è andato piuttosto male. Quello intorno al weekend del Ringraziamento è stato un momento delicato per il boxoffice statunitense e il film di Boyle, scritto da Aaron Sorkin, non è stato l’unico a soffrire la risacca pre-Star wars. Anche Everest, Pan, Black mass e The walk sono andati male. È vero anche che l’idea di un film sul mitologico ceo di Apple, soprattutto per chi ha già visto Jobs (di Joshua Michael Stern, con Ashton Kutcher), non è esattamente trascinante. Però al contrario di almeno quattro dei film citati (tutto sommato salverei Jobs) Steve Jobs è un bel film.
Si parte da tre momenti, topici (la presentazione del primo Macintosh nel 1984, quella di Next nel 1988 e quella del iMac nel 1998), attraverso i quali, grazie a uno script molto denso, si ripercorrono vita e opere del californiano che più di altri, in fin dei conti, ha orientato i consumi di massa a livello tecnologico. Più che con Jobs, viene spontaneo il confronto con The social network di David Fincher, sceneggiato dallo stesso Aaron Sorkin (che in quel caso vinse anche il premio Oscar). In realtà sono due film molto diversi, ma senza sforzarsi troppo qualche punto in comune si riesce a trovare.
In The social network, Mark Zuckerberg era dipinto in sostanza come uno sfigato, mollato nella prima scena del film dalla fidanzata (Rooney Mara, ancora lei) con poche probabilità di rimpiazzarla a meno di non diventare milionario. Qui abbiamo a che fare con qualcuno che molti considerano un mito, un guru, un genio e via dicendo. E Boyle e Sorkin (e Fassbender) forse sono un po’ caduti nella trappola agiografica. Ma Steve Jobs è un film in cui ci s’immerge senza fatica e le due ore di durata volano. Chi l’avrebbe detto?
Finalmente esce in sala Ti guardo, che ha vinto il Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Il film dell’esordiente venezuelano Lorenzo Vigas racconta l’incontro tra Armando (Alfredo Castro), uomo di mezza età che ha difficoltà a rapportarsi con il mondo (tanto che appare sfocato, come Robin Williams in Harry a pezzi) ed Elder (Luis Silva) un ragazzo di vita di Caracas. Tra i due si crea un rapporto ambiguo in cui non si sa bene cosa l’uno possa prendere o dare all’altro. Messa così la trama può quasi mettere paura. Ma vale la pena di aggiungere cheTi guardo è un thriller, che Vigas ha studiato cinema a New York, è amico di Iñárritu e di Guillermo Arriaga e che a Venezia è stato premiato da una giuria presieduta da Alfonso Cuarón (premio Oscar per Gravity). Meglio quindi non dare niente per scontato.
Piccoli brividi di Rob Letterman prende spunto dall’omonima serie di libri horror per bambini, abbastanza popolare intorno al mondo da entrare nel Guinness dei primati come la serie di libretti per bambini più venduta sul pianeta. Nell’adattamento cinematografico l’autore dei libretti R.L. Stine è anche uno dei personaggi principali ed è interpretato da Jack Black, che dopo una serie di film, serie tv e spot pubblicitari in cui sembrava davvero appannato, torna a un ruolo ideale per lui. Non so se questo è un motivo sufficiente per andare a vedere Piccoli brividi. Come forse non sono sufficienti il resto del cast di giovani attori carini o la pioggia di riferimenti al miglior cinema horror. Ma speriamo proprio che Jack Black sia tornato davvero.
Non sono ancora riuscito a vedere Il figlio di Saul. Il film del regista ungherese László Nemes ha già vinto una pioggia di premi, dal Gran prix della giuria a Cannes al Golden globe come miglior film straniero e ha molte possibilità di vincere anche il premio Oscar. Nemes, al suo esordio, sembra avere le idee molto chiare sul cinema. In più è riuscito ad aggiungere un ennesimo (“fortissimo”, scrive Christopher Orr sull’Atlantic) capitolo al cinema dedicato all’Olocausto. Tutti buoni motivi per non farselo sfuggire.
In uscita anche The pills. Sempre meglio che lavorare.
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