28 dicembre 2016 14:00

Da decenni il conflitto israeliano-palestinese occupa un posto centrale in tutte le analisi relative al Medio Oriente. Dopo il fallimento delle rivoluzioni arabe del 2011 e le loro tragiche conseguenze, questa questione irrisolta è finita in secondo piano man mano che nella regione si moltiplicavano pericoli e orrori: le guerre in Iraq e in Siria, la sfida jihadista, le convulsioni violente dell’Egitto che ha cambiato regime tre volte in cinque anni, il caos libico, la guerra in Yemen e soprattutto la rivalità tra Iran e Arabia Saudita, che interferisce in ognuno di questi conflitti.

Alla luce di tutto questo, perché la questione palestinese è tornata improvvisamente di attualità alla fine del 2016, con il voto nel Consiglio di sicurezza dell’Onu che ha provocato la rabbia di Israele? Le spiegazioni prevalenti sono due, complementari e sintomatiche dell’epoca di transizione in cui viviamo.

La prima riguarda i pessimi rapporti tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente statunitense Barack Obama. Netanyahu accusa Obama di averlo “tradito” con l’astensione americana che ha permesso l’adozione della risoluzione 2334 per 14 voti a 0, un affronto per Israele, abituato (male) ai veti protettori di Washington.

Si concludono così otto anni di frizioni e tensioni, quando non di sfide aperte, come nel caso del discorso pronunciato da Netanyahu nel 2015 davanti al congresso statunitense, alle spalle di Obama, nella vana speranza di impedire l’accordo nucleare con l’Iran a cui Israele si è opposto con forza.

Questo non ha impedito agli Stati Uniti di restare l’alleato numero uno di Israele, uno status simboleggiato dall’accordo concluso lo scorso autunno che garantisce 38 miliardi di dollari di aiuti militari statunitensi a Israele per i prossimi dieci anni, ossia il 20 per cento in più rispetto al periodo precedente.

Lo stallo si è prodotto su una questione cruciale: le colonie ebraiche della Cisgiordania e di Gerusalemme Est

Allo stesso tempo però Barack Obama, che al suo arrivo alla Casa Bianca aveva sperato di essere il presidente della pace tra Israele e Palestina grazie alla soluzione dei due stati, si è scontrato con l’ostruzionismo permanente di Netanyahu. Lo stallo si è prodotto su una questione cruciale: le colonie ebraiche della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, al centro della risoluzione 2334 e già oggetto della risoluzione 242 del 1967. Le colonie continuano a ingrandirsi e ospitano ormai più di mezzo milione di persone (370mila in Cisgiordania, 200mila a Gerusalemme Est). Nel 2010 Israele aveva perfino annunciato la costruzione di 1.600 ulteriori unità abitative a Gerusalemme Est durante la visita del vicepresidente statunitense Joe Biden, un affronto che la Casa Bianca prese molto male.

Al cuore della contrapposizione tra i due uomini ci sono due convinzioni di segno opposto. Da un lato Obama, e con lui buona parte del resto del mondo, convinto che la questione palestinese non sparirà e che la sua mancata soluzione rappresenti una bomba a orologeria che minaccia, in primo luogo, la sicurezza di Israele nel lungo periodo. Il presidente statunitense teme che il suo successore, Donald Trump, possa riaccendere il conflitto con posizioni apertamente filoisraeliane. Dall’altro lato Netanyahu, e con lui oggi la maggioranza degli israeliani, convinto che in Medio Oriente valgano solo i rapporti di forza, che lo stato ebraico si metterebbe in grave pericolo condividendo quel fazzoletto di terra con i palestinesi e che le colonie israeliane modificheranno per sempre la realtà sul terreno.

Il rilancio della lobby dei coloni
Queste due logiche inconciliabili si ritrovano nell’altro scenario che spiega l’improvviso scatto di Netanyahu: la situazione politica interna in Israele. All’età di 67 anni, Benjamin Netanyahu domina la politica israeliana da tre decenni, inclusi gli ultimi undici anni in cui ha ricoperto ininterrottamente la carica di primo ministro, nonostante le minacce, le divisioni, le pugnalate alle spalle che caratterizzano la vita politica nel suo paese.

Oggi però è soggiogato dall’ala di estrema destra della sua eterogenea coalizione, e in particolare dalla lobby dei coloni che lo spingono a decretare l’annessione pura e semplice di interi “blocchi” di territori palestinesi in cui si trovano insediamenti israeliani. Paradossalmente, i blocchi interessati da questa possibile annessione – come la città di Maale Adumim, alla periferia est di Gerusalemme, sulla strada che porta a Gerico – sono quelli che in base a tutti gli accordi di pace con i palestinesi passerebbero comunque a Israele in cambio di altre compensazioni territoriali. Nel caso di una mossa unilaterale, però, non c’è alcun bisogno di concedere contropartite.

Israele ritiene che il tempo giochi a suo favore. Innanzitutto dal punto di vista diplomatico, poiché l’amministrazione Trump, che entrerà in carica il 20 gennaio, dovrebbe mostrarsi molto più favorevole alla politica di colonizzazione. Almeno a giudicare dalla scelta del suo ambasciatore in Israele, David Friedman, che ha finanziato di tasca propria alcune colonie e prevede di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, con il rischio di provocare accese reazioni da parte palestinese e araba.

Lo stesso Trump ha cercato di opporsi la settimana scorsa all’adozione della risoluzione 2334 dell’Onu, su esplicita richiesta di Netanyahu e in aperta violazione di tutte le regole di transizione, in base alle quali deve esserci un solo presidente in carica.

I leader israeliani ritengono che la situazione in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sia irreversibile. A meno che non voglia rischiare una guerra civile, Israele non può trasferire 500mila coloni dai territori che l’Onu considera “occupati” e che dovrebbero costituire il futuro stato palestinese. Basta vedere come il destino delle quaranta famiglie dell’insediamento illegale di Amona, in Cisgiordania, ha attirato l’attenzione degli israeliani nelle ultime settimane.

Gli israeliani temono una manovra diplomatica francoamericana, che potrebbe tradursi in un nuovo voto all’Onu

Il riacutizzarsi delle tensioni in seguito alla risoluzione 2334 pone dunque una questione fondamentale: si tratta del “canto del cigno” di un processo di pace che secondo molti è già morto da tempo? O segnala piuttosto che la questione palestinese è centrale e continuerà a esserlo, a prescindere dalle convulsioni del Medio Oriente?

La diplomazia francese negli ultimi mesi ha compiuto molti sforzi per cercare di far sopravvivere un processo di pace che Israele non vuole. Una prima conferenza si è tenuta a Parigi a giugno, senza i protagonisti del conflitto, e il 15 gennaio 2017 se ne terrà una seconda, sempre nella capitale francese, alla quale invece sono stati invitati israeliani e palestinesi.

Gli israeliani si oppongono con forza a questa conferenza, paragonata dal ministro della difesa israeliano Avigdor Liberman, schierato su posizioni decisamente di destra, a un “nuovo affare Dreyfus”, in riferimento alla famigerata vicenda antisemita avvenuta in Francia alla fine del diciannovesimo secolo.

Gli israeliani temono sopra ogni cosa una manovra diplomatica francoamericana sulla scia dell’episodio accaduto in seno al Consiglio di sicurezza, che potrebbe tradursi in un nuovo voto all’Onu proprio prima del passaggio di consegne del 20 gennaio a Washington. Il segretario di stato americano John Kerry potrebbe poi pronunciare proprio a Parigi il suo discorso-testamento sulla pace in Medio Oriente, che non ha potuto pronunciare la scorsa settimana per evitare di inasprire i rapporti con Netanyahu.

Non c’è però il rischio che tutto questo fermento diplomatico sfoci nel breve periodo in una vera pace tra due stati sovrani e in rapporti pacifici, là dove oggi esistono Israele e i territori palestinesi occupati (Cisgiordania e Gerusalemme Est) o assediati (la Striscia di Gaza).

Le condizioni politiche non sono mature né sul versante israeliano, dove a prevalere è un atteggiamento di intransigenza e di sfida, né su quello palestinese dove – al di là delle divisioni storiche tra Al Fatah e Hamas – ci sono solo il potere indebolito e ormai alla fine del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen e una frustrazione generale disorganizzata.

Questo clima però rivela come la questione palestinese resti aperta e attuale, malgrado tutti gli sforzi israeliani per farla dimenticare grazie a una efficace realpolitik regionale e allo stato di generale debolezza dei palestinesi. La domanda alla quale nessuno, nemmeno Obama, è riuscito a rispondere è come convincere gli israeliani che la soluzione della questione è nel loro stesso interesse.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it