21 novembre 2017 16:18

All’inizio del 1980, a Kutama, una modesta periferia di quella che si chiamava ancora Rhodesia e sarebbe divenuta tre mesi più tardi lo Zimbabwe indipendente, un missionario gesuita europeo mi disse con un ampio sorriso: “Abbiamo fatto un buon lavoro, no?”. Parlava di uno dei suoi ex allievi della scuola della sua missione, nella fertile campagna dell’Africa australe: Robert Mugabe.

Per tutti gli osservatori della fine della guerra d’indipendenza della ex Rhodesia – un conflitto brutale, costellato di massacri e di odio a lungo covato – Robert Mugabe, il più radicale dei capi della guerriglia, appariva paradossalmente come la persona più adeguata per far uscire il paese dalla spirale della violenza.

Invece è diventato l’implacabile dittatore di questo stesso paese per 37 anni, l’uomo che ha affossato tutte le speranza riposte in lui, attaccato al potere fino a quasi cento anni, nonostante sia stato disconosciuto dal suo esercito, dal suo partito e dal suo popolo. Questa trasformazione da eroe in diavolo rimane uno dei grandi misteri dei rapporti tra gli esseri umani e il potere.

La scuola della resistenza
Nel 1980, la fine della guerra negoziata sotto l’egida del Commonwealth prevedeva che i guerriglieri sarebbero usciti dalla macchia per ritrovarsi in alcuni accampamenti durante la campagna elettorale, mentre alcune forze internazionali avrebbero garantito la sicurezza.

Una mattina, mentre viaggiavamo in auto su una strada sterrata insieme al fotografo francese Jean-Claude Francolon, siamo stati circondati da alcuni guerriglieri dell’Unione nazionale africana-Fronte patriottico (Zanu-Pf) di Mugabe, armati fino ai denti e sbucati da chissà dove. Eravamo senza dubbio i primi bianchi che incontravano senza ucciderli durante quel conflitto senza pietà. Quel giorno, infatti, erano diretti verso uno dei punti d’incontro del Commonwealth e apparivano decisamente di ottimo umore. Abbiamo lasciato la nostra auto e ci siamo avviati a piedi con loro, constatando l’entusiasmo degli abitanti dei villaggi al loro passaggio, e la speranza che li animava.

Il loro capo, Robert Mugabe, era un uomo raffinato, che parlava un inglese degno di Oxford, un intellettuale passato alla lotta armata, affascinato dalla Cina di Mao ma anche segnato dai fallimenti dei paesi africani che avevano ottenuto l’indipendenza prima del suo, in particolare del vicino Mozambico, che non si era più ripreso dall’esodo in massa dei coloni portoghesi tra il 1975 e il 1976.

Robert Mugabe appartiene a quella generazione di dirigenti dei movimenti di liberazione dell’Africa australe che si è formata all’università per neri di Fort Hare, nel vicino Sudafrica, in pieno apartheid.

Nel paese della segregazione istituzionalizzata, i neri dovevano frequentare università distinte da quelle dei bianchi. Fondata nel 1916 e situata nella parte orientale della provincia di Città del Capo, Fort Hare accoglieva gli studenti neri di buona parte dell’impero britannico in Africa. Ma invece di formare dei sudditi sottomessi al sistema coloniale, era diventata la scuola della resistenza.

In quella università hanno studiato alcuni dei protagonisti della storia africana, come il presidente della Tanzania Julius Nyerere, quello dello Zambia Kenneth Kaunda, o quello del Botswana Seretse Khama, così come i grandi nomi della lotta antiapartheid in Sudafrica: Nelson Mandela, Oliver Tambo, Govan Mbeki, Robert Sobukwe, Chris Hani e Steve Biko.

È a Fort Hare che Robert Mugabe si è impegnato politicamente, a contatto con la nuova generazione nera del dopoguerra, quella che vide Nelson Mandela e i suoi amici prendere il controllo della Lega giovanile dell’African national congress (Anc) e spingerla a un’azione più determinata contro il regime segregazionista.

Mugabe ha fatto grandi sacrifici per la sua causa, è stato in prigione dieci anni, ha conosciuto l’esilio, le privazioni

All’università ha frequentato gli ambienti nazionalisti neri, divisi tra l’Anc di Mandela, alleato dei comunisti bianchi, e il Pan africanist congress (Pac) di Robert Sobukwe. Mugabe era diventato marxista a contatto con i primi, spesso ebrei, iscritti al clandestino Partito comunista sudafricano.

È in questo fervido contesto intellettuale del Sudafrica degli anni cinquanta che si è formato Robert Mugabe, prima che il massacro di Sharpeville nel 1961, la messa al bando dell’Anc e la condanna di Nelson Mandela e dei suoi compagni non facesse calare una cortina di ferro che avrebbe resistito fino agli anni settanta e ottanta.

Mugabe ha fatto grandi sacrifici per la sua causa. È rimasto in prigione dieci anni, ha conosciuto l’esilio, le privazioni e ha condotto la lotta per l’indipendenza dall’estero, guidando un movimento di guerriglia, l’Unione nazionale africana dello Zimbabwe (Zanu). È un percorso, il suo, durato vent’anni e culminato con la vittoria, che ha sicuramente lasciato dei segni, anche se l’esempio di Nelson Mandela mostra che il sacrificio non impedisce necessariamente la grandezza.

Tra la Cina e l’Unione Sovietica
Mugabe ha vissuto in quella che all’epoca si chiamava la “linea del fronte”, l’insieme di paesi indipendentisti – Zambia, Tanzania, Mozambico e Angola – che hanno pagato caro il loro sostegno ai movimenti di liberazione in Sudafrica, in Namibia e in Zimbabwe.

La “fratellanza d’armi” di questi gruppi e dei loro dirigenti non ha però evitato le rivalità, le divisioni politiche e talvolta quelle etniche.

Gli abitanti dello Zimbabwe erano infatti divisi tra due movimenti, lo Zanu di Mugabe, sostenuto dai cinesi e nato da una scissione della Zapu (Unione del popolo africano dello Zimbabwe) di Joshua Nkomo, più vicino all’Anc e ai sovietici, più anziano, ex studente di Fort Hare dove aveva conosciuto Mandela. La rivalità era accompagnata anche da una differente appartenenza etnica: Mugabe è della maggioranza shona, mentre Nkomo proveniva dalla minoranza ndebele del sudovest del paese. Una volta diventato presidente, Mugabe non ha atteso molto prima di inviare il suo esercito e di scatenare i primi massacri del suo violento regime nel Matabeleland, la roccaforte del suo effimero ministro Joshua Nkomo, accusato di complotto.

Alle elezioni del 1980, Robert Mugabe e Joshua Nkomo si erano presentati quindi sotto un’aura di comandanti guerriglieri, trovando però a sfidarli due altri candidati che godevano dell’appoggio dei britannici e dei coloni bianchi: il vescovo metodista Abel Muzorewa, capo di una sorta di “terza via” fantoccio, e un dissidente della Zanu, diventato oppositore e sostenuto dai coloni, Ndabaningi Sithole.

Il primo governo Mugabe è stato l’immagine di una riconciliazione tanto idilliaca quanto illusoria

La campagna elettorale fu aspra, e ciascuno dei candidati riuscì a radunare delle impressionanti folle di sostenitori. Ma il giorno dei risultati, la sorpresa fu enorme quando fu proclamata la schiacciante vittoria di Mugabe. Sorpresa per i bianchi e per una parte dei neri, che non avevano voluto vedere che il vento della storia soffiava in suo favore. Salisbury, la capitale del paese poi ribattezzata Harare, era sotto choc: aveva vinto il più radicale dei quattro candidati.

La sera, tuttavia, durante il suo discorso televisivo, Robert Mugabe, parlò di riconciliazione e tese la mano a quegli stessi bianchi che avevano imparato a temerlo e a odiarlo. Fu un momento magico, che segnò l’improvvisa conversione dei suoi nemici di ieri in ammiratori, pronti a stringere la mano che gli veniva tesa.

Il primo governo Mugabe è stato l’immagine di questa riconciliazione, tanto idilliaca quanto illusoria. Joshua Nkomo, il rivale sconfitto, era uno dei ministri, al pari di Denis Norman, fino ad allora presidente dell’Unione degli agricoltori bianchi della Rhodesia, il centro di gravità dell’ormai scomparso potere bianco. Una doppia nomina destinata a rassicurare la popolazione, la comunità internazionale e i mercati. Due anni dopo, Nkomo era in prigione e poco dopo anche Denis Norman ha gettato la spugna ed è tornato nel Regno Unito.

Come ha fatto Robert Mugabe, l’eroe del 1980, il vittorioso “combattente della libertà”, a trasformarsi così velocemente nell’aguzzino dei 37 anni successivi?

Nel suo libro Dinner with Mugabe (Penguin 2008), la giornalista Heidi Holland, che ha conosciuto bene e sostenuto Mugabe prima del 1980, prima di essere costretta a sua volta a fuggire dal paese nel 1982, scrive:

Osservando il passato, mi rendo conto che insieme a molti altri individui ben intenzionati, ho forse contribuito a fare di Robert Mugabe l’uomo che è diventato oggi. Se avessimo reagito diversamente ai suoi primi segni di paranoia, lo Zimbabwe avrebbe potuto evitare questa discesa agli inferi? Se i bianchi di questo paese avessero potuto essere più realisti, riconoscendo l’impossibilità di una transizione morbida dallo stato poliziesco che avevano creato alla democrazia illusoria che sognavano, sarebbero forse stati più rispettosi e meno provocatori? Oppure Robert Mugabe è semplicemente un esempio della maniera in cui il potere corrompe gli esseri umani?
Mugabe pensava di essere speciale, diverso e nato per essere grande. (…) Lo ricorderemo soprattutto come un tiranno. Altri lo ricorderanno come un personaggio triste, che ha sofferto e patito dei sacrifici. Ha rovinato il suo paese, lo Zimbabwe, il che è una vera tragedia, perché questo triste destino non era inevitabile.

Questi interrogativi accompagneranno per molto tempo ancora gli abitanti dello Zimbabwe, mentre la questione dell’eredità di Mugabe non mancherà di presentarsi, in un modo o nell’altro, nei giorni e nelle settimane a venire. Ma ascoltando il discorso letto a fatica, la sera del 19 novembre, da un anziano signore che si aggrappa al potere, viene da pensare al discorso generoso e brillante del vincitore delle elezioni di una sera d’aprile del 1980. E viene da chiedersi, una volta di più, i motivi di un simile spreco umano e politico. Trentasette anni dopo, c’è da ricostruire tutto.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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