16 gennaio 2018 10:17

Saeb Erekat è da un quarto di secolo il volto della Palestina nei negoziati con Israele. L’ho conosciuto nel 1993, subito dopo la firma degli accordi di Oslo e la famosa stretta di mano tra Rabin e Arafat alla Casa Bianca del 13 settembre 1993.

Controverso e contestato, Saeb Erekat ha comunque incarnato per anni, in quanto negoziatore dell’Autorità Nazionale Palestinese, la soluzione dei “due stati”, Israele e Palestina, uno di fianco all’altro, in pace e in armonia. Fa quindi un certo effetto sentirgli dire che ormai questa soluzione è “morta”, e che rimane una sola alternativa: uno stato unico, nel quale israeliani e palestinesi vadano a coabitare con gli stessi diritti.

Saeb Erekat non è l’unico a credere che sia ormai troppo tardi per separare i due popoli: la colonizzazione di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, che con la Striscia di Gaza costituiscono i territori occupati secondo la definizione della risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 1967, ha infatti cambiato in maniera irreversibile la situazione. Quale governo israeliano avrà la legittimità, e la forza, di far sloggiare 700mila persone che vivono su territori che il diritto internazionale considera palestinesi?

Una soluzione che svanisce
Un centro studi come l’European council on foreign relations (Ecfr) riteneva già nell’ottobre del 2016 che la soluzione dei due stati fosse ormai “sempre più improbabile”, e che il proseguimento dell’occupazione, o dell’annessione, dei territori palestinesi avrebbe prodotto “la realtà di un unico stato”, con tutte le sue conseguenze politiche, demografiche e di sicurezza che nessuno oggi vuole vedere.

La soluzione dei “due stati” rimane al cuore delle discussioni internazionali, difesa da tutti coloro che, in maniera sincera o ipocrita, dicono di volere la pace in questa tormentata parte del mondo. Esattamente un anno fa, Parigi ha ospitato una conferenza internazionale a favore della soluzione dei due stati, un vano tentativo di François Hollande di fare uscire i negoziati dall’impasse. La conferenza si è rivelata poi un insuccesso e il mondo passò ad altro.

Perfino Benjamin Netanyahu, il capo del governo israeliano, arrivato al potere nel 1996 dopo aver condotto una virulenta campagna contro Yitzhak Rabin e gli accordi di Oslo, che portarono all’omicidio del primo ministro nel novembre 1995 compiuto da un estremista religioso ebraico, afferma di sostenere la creazione di uno stato palestinese. Anche se in realtà non fa niente per favorire la cosa e continua a incoraggiare la colonizzazione.

Potrebbe essere Donald Trump a dare il colpo di grazia all’idea, o mito, dei due stati. La sua decisione unilaterale di riconoscere Gerusalemme, nel dicembre del 2017, come capitale d’Israele e di trasferirvi l’ambasciata statunitense, ha chiarito ai palestinesi ogni dubbio sulla posizione di Washington nei loro confronti. Oltre al fatto che, nel contesto regionale e internazionale attuale, non c’è alcuna speranza di veder realizzare alcun “processo di pace”, un’espressione che ormai non può che essere utilizzata tra virgolette.

Se la strada che portava ai due stati si sta inesorabilmente chiudendo, che ne è della soluzione a un unico stato?

Ciò è tanto più vero se si considera che l’ala a destra della coalizione attualmente al potere in Israele spinge per l’annessione pura e semplice di alcuni territori della Cisgiordania a est di Gerusalemme, che sarebbero sicuramente stati attribuiti a Israele nel quadro di un accordo globale fatto di scambi territoriali, ma che questi componenti del governo Netanyahu, il cosiddetto partito dei coloni, vogliono attribuirsi unilateralmente.

Un calcolo noto e una scelta impossibile
Se quindi la strada che portava ai due stati si sta inesorabilmente chiudendo, ammesso che non si sia già chiusa, che ne è della soluzione di un unico stato? Le organizzazioni palestinesi storiche hanno avuto per lungo tempo come unico programma quello di una sola “Palestina democratica e laica” prima di accettare nel 1993, in particolare il partito Fatah di Arafat, l’idea dei “due stati” come compromesso concreto, sapendo che gli israeliani non avrebbero mai accettato l’idea di un unico stato.

Si tratta di un calcolo noto: gli israeliani ebrei sarebbero minoritari in uno stato condiviso con i palestinesi nei territori dell’ex Palestina del mandato britannico, vale a dire l’attuale Israele più i territori palestinesi occupati.

Gli israeliani si troverebbero quindi di fronte a una scelta impossibile: rimanere uno “stato ebraico”, per riprendere il titolo del libro di Theodor Herzl che, alla fine del diciannovesimo secolo, fece nascere il sogno sionista di un “ritorno” alla terra biblica, e che implicherebbe che i palestinesi che vivono in questo stato non godrebbero di pari diritti, oppure creare uno stato binazionale nel quale tutti i cittadini godrebbero degli stessi diritti, ma che implicherebbe una rinuncia alla specificità di Israele.

Entrambe le soluzioni sono difficili da immaginare. La prima farebbe di Israele uno stato non democratico, poiché la maggioranza dei suoi cittadini sarebbe priva di diritti. La seconda negherebbe la forza dell’idea di uno stato ebraico dopo i traumi storici del ventesimo secolo.

Se il Medio Oriente si trovasse nelle Alpi, si chiamerebbe Svizzera, con la sua costituzione federale, il suo sistema di cantoni e di democrazia diretta e la sua condivisione dei poteri al livello nazionale che ha fatto di questo paese un’oasi di pace (certo con ambiguità, ma non è questo il punto) nel cuore di un continente che ha avuto la sua dose di guerre e di odio.

Due popoli, uno stato? Intervista alla giornalista israeliana Amira Hass


Si potrebbe in effetti tranquillamente trasporre la costituzione svizzera in questo stato unico israelo-palestinese (quale sarebbe il nome? IsraPal?). La frammentazione territoriale attuale, tra colonie ebraiche e villaggi palestinesi in Cisgiordania, l’isolamento della striscia di Gaza, o anche la segregazione geografica di fatto tra israeliani ebrei e arabi israeliani, cristiani e musulmani, nell’Israele precedente al 1967, offre una possibile suddivisione territoriale in cantoni autonomi.

Ognuno potrebbe restare padrone a casa propria, con i suoi modi di vita e le sue tradizioni, oltre che con la sua polizia cantonale. È quello che già succede, anche all’interno di ogni comunità: basta passare un sabato dal “cantone” di Tel Aviv, con i suoi bar e le sue spiagge, a quello di una colonia religiosa ebraica della Cisgiordania, per sentirsi in due paesi diversi. La creazione di cantoni darebbe a ognuno la certezza che le sue scelte di vita sarebbero rispettate all’interno di uno stesso insieme.

I cantoni delegherebbero a un’entità confederale le missioni di sicurezza che sono evidentemente fondamentali per una convivenza pacifica di queste comunità che per lungo tempo si sono scontrate.

Utopia? Oggi sì, nella misura in cui il rapporto di forza è tale da permettere agli israeliani di poter pensare di conservare lo status quo, se non all’infinito, almeno nel futuro prossimo. Niente, nell’ambiente internazionale o nei rapporti quotidiani con i palestinesi, malgrado le occasionali esplosioni di violenza con le quali Israele convive da decenni, spinge l’opinione pubblica o i dirigenti a rimettere in discussione l’ordine esistente.

Studiare la convivenza
Chi può credere, però, che l’attuale stato delle cose, che prefigura inevitabilmente una condizione d’apartheid, per utilizzare un termine molto discusso, possa sopravvivere nei decenni a venire? Chi può credere che i palestinesi, che hanno dimostrato nel corso degli anni una fortissima resilienza, accetteranno in silenzio di scomparire e di aver perso la partita?

L’“opzione svizzera” è chiaramente molto lontana dalle realtà del Medio Oriente attuale, con le sue divisioni confessionali, le guerre civili, etniche e religiose, le contese territoriali, politiche e ideologiche. Ma dal momento in cui la separazione non sarà più possibile, quando i due popoli che si contendono la stessa terra saranno condannati a conviverci, come non cominciare a immaginare delle formule di coabitazione? Le utopie di oggi potrebbero trasformarsi nelle soluzioni pratiche di domani?

(Traduzione di Federico Ferrone)

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